CITTADINI & UTENTI

Internet alla deriva, oppure il mondo alla deriva?

Ci scrive Roberto Preatoni, imprenditore, ma soprattutto profondo conoscitore del mondo sotterraneo della Rete prima ancora che il web si configurasse come terra emersa ed abitata dalla moltitudine umana. Affronta lo spigoloso tema della censura che le tecnologie riescono ad applicare con grande facilità e non senza controindicazioni.

FULL DISCLOSURE (mai tale incipit fu più necessario, in questo periodo di caccia alle streghe e di pregiudizi elevati a sentenza): chi scrive ha vedute che a seconda del periodo storico sono state vicine sia a quelle dei Democratici americani pre-Obama che ultimamente a quelle dei repubblicani di Trump, soprattutto nella sua funzione di candidato presidenziale anti-Clinton, turandosi quindi il naso, come disse Indro Montanelli.

Essendomi occupato nel tempo di informatica, cybersecurity e lotte per le libertà digitali non posso negare di aver assistito allarmato alla deriva totalitaria intrapresa negli ultimi anni dalla stampa generalista, tecnologica, scientifica e ancor di più dai social media. Una deriva che paradossalmente diventa ancora più infame perché sdoganata come necessaria per la “salvaguardia della democrazia” che ha trovato origine negli USA ma che presto ha attecchito in tutti i Paesi gestiti da partiti progressisti, il nostro incluso.

Qualcuno per favore mi spieghi come il processo di salvaguardia della democrazia possa avvenire tramite l’istituzione di un meccanismo di censura di opinioni e notizie esercitato unilateralmente ai danni di una fazione politica con visioni opposte.  E’ una questione filosofica: se si accetta il principio che il libero pensiero e il diritto di espressione siano due diritti sovrani e universali, allora se non si è ipocriti bisogna saper accettare che a proferire parola siano non solo gli avversari politici ma anche i complottisti, i negazionisti, gli imbecilli, i fascisti, i nazisti e i comunisti.

Anzi, i veri democratici dovrebbero fare proprio il cavallo di battaglia della salvaguardia del diritto di parola degli avversari e siccome su questo punto siamo (quasi) tutti d’accordo, allora dobbiamo chiederci come l’attuale deriva censoria possa essere giustificata da un fiume di eccezioni sollevate dalle attuali maggioranze politiche progressiste.

Quella della censura a fini democratici è un vizietto storico di tutti gli “ismi”: nazismi, fascismi, comunismi, progressismi che in qualche maniera sono riusciti nella storia a sdoganare l’idea che censurare a fin di bene sia cosa buona e giusta.

Sia chiaro, per essi siamo tutti imbecilli: pur essendo nel periodo storico di massima scolarizzazione, secondo il moderno progressismo pare che la massa non sia assolutamente capace di ragionare in proprio leggendo (sic) a destra e a manca facendosi così una propria idea, di conseguenza è necessario e giustificato che vengano posti in essere dei filtri censori, ovviamente gestiti unilateralmente e che le notizie che vengono bollate come vere siano solo quelle che aderiscono agli standard progressisti.

Come ha fatto notare l’opinionista repubblicana Candace Owence, il sistema di fact checking utilizzato da Facebook e Google per censurare le notizie si appoggia a società esterne quali Leadstories.com, società partecipata dagli stessi Google e Facebook e gestita da Alan Duke, un anchorman che per 25 anni ha lavorato in CNN, quindi in forte odore progressista e chiaramente in conflitto di interessi.

Per voi è tutto normale ed accettabile? Per me no.

Per voi è accettabile che colossi come Facebook e Twitter possano oscurare i contenuti non solo di privati cittadini ma anche del Presidente degli Stati Uniti? O addirittura che membri del congresso americano progressisti spingano per la messa al bando di social network alternativi (sui quali non hanno controllo) come Parler.com? Per me no.

Arriviamo così ai tecnicismi: il Primo Emendamento della Costituzione americana sancisce il diritto al libero pensiero e alla libertà di stampa. Gli stessi princìpi sono stati ribaditi dalla Carta dei Diritti del 1791 e dalla Dichiarazione sui Diritti Umani delle Nazioni Unite nel 1948 alla quale gli USA hanno aderito. Di conseguenza i social network non dovrebbero poter esercitare alcun diritto di censura sui contenuti degli utenti.

L’argomento principe utilizzato da coloro che approvano la condotta censoria dei social network è che essi siano società private e che per tale motivo abbiano il diritto di iscrivere nelle clausole di Terms of Service quello che vogliono, incluso il diritto alla censura per i contenuti che non aderiscono agli standard da esse auspicati.

Nella valutazione se tale posizione possa essere sostenibile entrano però in gioco due fattori.

Il primo è che tali social network non siano società completamente private perchè esse sono quotate in borsa, quindi sono società a maggioranza privata ma con capitale sottoscritto da terzi. Di conseguenza esse devono fare molta attenzione alle politiche di gestione per la salvaguardia degli interessi degli azionisti.

Dopo l’oscuramento dei profili social di Trump, il mercato ha deciso di punire severamente Facebook e Twitter: nel momento in cui sto scrivendo Facebook ha bruciato 60 miliardi di dollari in capitalizzazione mentre Twitter ne ha bruciati quasi 10. Inoltre la piattaforma di messaging Whatsapp (che appartiene a Facebook), ha subito a ruota un esodo di decine di milioni di utenti verso le applicazioni alternative Telegram e Signal .

Negli stessi giorni e prima della sua messa al bando da Google, Apple e Amazon, il social media senza censure Parler.com era balzato in testa alle classifiche delle app più scaricate e 17 milioni di persone erano migrate su esso esodando da Facebook.

Aspettiamoci quindi delle clamorose class-action ai danni di Facebook, Twitter, Google e Amazon e di conseguenza dei suoi azionisti.

Eppure Zuckerberg non sembra uno stupido, è impossibile pensare che le sue politiche di censure a Trump non potessero produrre dei contraccolpi importanti sul piano della capitalizzazione in borsa.

Qual è stata quindi la molla che lo ha fatto muovere in quella direzione?

Per comprenderlo dobbiamo andare indietro nel tempo ai giorni immediatamente successivi all’insediamento di Trump, giorni in cui i democratici sollevarono il caso Cambridge Analytics sino a portare Zuckerberg a testimoniare le sue responsabilità di fronte al Senato. E Zuckerberg, che stupido non è, ha capito subito il messaggio mafioso e per sopravvivere si è prestato al gioco dei democratici, anche alla luce del fatto che recentemente lo stesso Facebook venne minacciato dall’amministrazione Trump di smantellamento a seguito di un intervento dell’antitrust.

Il secondo fattore è che i social network nei loro primi anni di vita hanno sperimentato gli stessi problemi subiti da Google quando diversi governi, in una manifesta incapacità di comprendere i fenomeni di Internet, hanno preteso ingiustamente di rendere i motori di ricerca e i social network responsabili dei contenuti pubblicati o riportati.

Nel caso dei social network la (corretta) strategia difensiva è stata quella di dichiararsi imprese con finalità non editoriale, mere fornitrici di servizi di collegamento tra persone e di pubblicazione dei contenuti da esse generati, dichiarando quindi gli utenti i responsabili di ultima istanza in sede civile e penale.

Tale finalità editoriale e presupposta neutralità hanno però cessato di sussistere nel momento in cui i social network hanno cominciato ad esercitare azione di censura, perché a tutti gli effetti essa rappresenta una volontà tipicamente editoriale, soprattutto se il business aziendale è basato sulla raccolta pubblicitaria e sulla vendita dei dati personali degli utenti che agiscono come produttori dei contenuti.

Proprio in queste ore sui media progressisti americani compaiono articoli che riportano la tesi che la censura sia un atto corretto per evitare che i social media vengano utilizzati per produrre episodi di radicalizzazione dell’estrema destra americana arrivando in taluni casi a paragonarla all’ISIS.

Posto il fatto che trovo ridicolo che tutto ciò che non sta a sinistra possa essere etichettato uniformemente come estrema destra (la stessa cosa avviene oggi in Italia), fatemelo dire apertamente: l’atto della censura dei social per evitare episodi di radicalizzazione è un atto che solo degli idioti incompetenti (oppure dei furbi ipocriti) potrebbero concepire.

La radicalizzazione è sempre avvenuta su Internet, prima ancora che nascessero i social. Chi scrive infatti si è occupato per 10 anni della mappatura della radicalizzazione islamica su Internet.

Se le preoccupazioni fossero veramente i fenomeni di radicalizzazione allora chiudere i canali social sarebbe l’ultima cosa che andrebbe fatta, perchè così facendo le varie autorità di PS perderebbero istantaneamente il miglior strumento possibile per il tracciamento del fenomeno, delle persone che lo compongono, di quelle che lo gestiscono e dei contenuti che vengono scambiati.

Concludo tirando le orecchie all’ Electronic Frontier Foundation, entità che storicamente si è sempre eretta a tutela delle libertà civili in ambito digitale. Nella questione Trump-social network l’EFF ha messo la coda tra le gambe, emanando un misero comunicato che dice in sintesi “i social hanno il diritto di aver fatto ciò che han fatto però sono stati brutti e cattivi a farlo”, nulla di più.

In pratica l’EFF non ha avuto il coraggio di prendere una posizione netta, calpestando di fatto gli stessi princìpi di salvaguardia della libertà di espressione da essa stessa stabiliti nella sua Blue Ribbon Campaign.

Stiamo quindi assistendo ad una pericolosissima deriva totalitaristica che mette a rischio le libertà personali, alla quale chiunque fosse sano di mente avrebbe il dovere di opporsi, indipendentemente dal proprio credo politico.

Tutti noi dobbiamo poter avere il diritto di dire qualsiasi cosa, per quanto controversa, offensiva o falsa essa possa essere, senza essere censurati e senza dover poi dover chiedere pubblicamente scusa.

Tutto il resto è inaccettabile.

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