
La notizia è stata data quattro giorni fa dall’autorevole British Medical Journal (BMJ), una delle maggiori riviste mediche a livello mondiale.
La portata della scoperta e le sue possibili conseguenze sono state chiaramente definite nell’articolo, coerentemente all’equilibrio necessario nelle comunicazioni scientifiche.
La nuova mutazione è stata individuata in un totale di 1.108 casi accertati, sebbene il numero potrebbe essere più grande – e sicuramente lo è.
Il nuovo ceppo ha una diffusione accertata nel sud-est dell’Inghilterra e potrebbe essere associato alla crescita di nuovi casi ma, soggiunge BMJ, non è la stessa cosa che dire, che stia certamente causando la crescita di nuovi casi.
Per fare un minimo di chiarezza rispetto a cosa questo significhi, e non ragionare come un bipede generico medio, bisogna tenere presenti una serie di considerazioni razionali.
La prima è che le mutazioni sono eventi assolutamente normali in qualunque organismo. Tutti i viventi, compresi virus e batteri (anche se per i virus esiste una antica discussione sul considerarli o meno dei viventi), possiedono almeno una delle due molecole associate alla trasmissione delle informazioni genetiche: DNA ed RNA.
I virus hanno una sola di queste molecole, ed in particolare il COVID è un virus a RNA. Per propria natura, i virus sfruttano l’organismo dell’ospite per replicarsi, producendo copie del proprio DNA o RNA. Durante questo processo, possono avvenire degli errori di trascrizione, i quali vengono per l’appunto definiti mutazioni.
Contrariamente a quanto qualche decennio di fumetti Marvel hanno insegnato, tuttavia, i mutanti non sono necessariamente portatori di sventura. In particolare, per i virus la maggior parte delle mutazioni producono effetti trascurabili sulle capacità del virus stesso.
Il secondo aspetto da tenere presente, quindi, è che, per capire se dobbiamo preoccuparci in presenza di una mutazione di un virus, bisogna esaminarne le conseguenze cliniche: infettività, severità e letalità. Dobbiamo cioè capire, se la mutazione mette in condizione il virus di infettare più persone, il che però ancora non significa che bisogna mettersi in allarme.
Se infatti la maggiore infettività non ha influenza sulla severità, può significare che abbiamo numerosi nuovi casi, ma per lo più asintomatici o paucisintomatici. Se invece ha influenza sulla severità, allora è necessario alzare il livello di allarme.
Molti nuovi casi, numerosi dei quali a severità elevata, possono significare un sovraffollamento degli ospedali e delle sale di rianimazione. Ma ancora non è un problema di ordine strettamente clinico, ma solo legato alla nostra capacità di trattare contemporaneamente un gran numero di casi gravi.
L’eventuale aumento di mortalità, quindi, in questo caso è prevalentemente legato ad un difetto di logistica sanitaria e non di letalità biologica del virus.
L’ultimo livello è ovviamente il peggiore in termini di scenario: un aumento dell’infettività, accompagnato ad un aumento sia della severità, che della letalità. In altre parole, un numero elevato di persone si ammala contemporaneamente, molti sono gravi e indipendentemente dalla nostra capacità di trattarli nello stesso momento, molti muoiono.
Nel caso della mutazione inglese, non abbiamo ancora determinato alcunché. Fare in questo momento dei titoli di giornale o televisivi terroristici non corrisponde alla realtà dei fatti. In questo, gli organi di comunicazione dovrebbero mantenere un giusto equilibrio per evitare di sollecitare ulteriormente un’opinione pubblica già stancata e confusa dal susseguirsi irrazionale di disposizioni relative alla libertà di circolazione.
Ad esempio, contrariamente a quanto l’allarmistico titolo de Il Tempo suggerisce, non c’è al momento alcuna correlazione tra la comparsa di questo mutante e l’efficacia potenziale dei vaccini già disponibili o in preparazione.
Fare questo tipo di titoli fa forse aumentare il numero dei click, ma non corrisponde ad un’etica diffusione delle informazioni.