
È alla portata di tutti, e argomento molto gettonato nelle discussioni online, il dato secondo il quale la pandemia di coronavirus abbia inciso fortemente sul tessuto produttivo ed economico dell’Italia.
Come tale, ed in nome del principio di solidarietà connesso al nostro essere europei, già da qualche tempo il nostro Paese ha fatto richiesta di finanziamenti comunitari che servano a risollevare da un punto di vista economico il nostro tessuto produttivo. Tali finanziamenti, i quali non sono a fondo perduto, ma costituiscono invece un prestito, seppure a tassi particolarmente vantaggiosi, devono ovviamente essere spesi per creare attività che generino moltiplicatori di rilievo, tali da consentire un riavvio del motore economico sul medio-lungo termine.
In un precedente articolo, avevamo in particolare individuato il Sud come aria primaria per la spesa di quanto ricevuto, in particolare per quanto riguarda la costruzione delle grandi infrastrutture, la mancanza delle quali costituisce un importante ostacolo allo sviluppo socioeconomico. Avevamo inoltre individuato la digitalizzazione come opportunità irripetibile per riequilibrare il bilancio di competenze ed il conseguente benessere sociale all’interno del paese stesso, cavalcando l’onda dello smartworking e del Southworking indotta dalla pandemia.
Avevamo ancora lanciato un monito a che il settore sanitario, che in emergenza sta salvando vite ormai da quasi un anno, fosse considerato urgenza primaria per l’allocazione dei fondi. Ci saremmo infine aspettati che le Forze Armate, chiamate spesso ad ovviare ad incompetenza e disorganizzazione, nonché ad intervenire in aree particolarmente critiche, ricevessero un’attenzione commisurata al grado di abnegazione dimostrato in questi mesi.
La lettura delle voci di allocazione finanziaria del Recovery Plan, così come pubblicate dai maggiori media nazionali, restituisce invece un quadro in agrodolce, in cui, accanto ad investimenti mirati e condivisibili, emergono delle palesi assurdità, accanto a delle colpevoli assenze.
Appare infatti coerente la destinazione di 48,7 miliardi di euro alla digitalizzazione del Paese. L’obiettivo deve essere quello di portare Internet ad alta velocità in qualunque posto della penisola, il che ha immediate conseguenze positive. Da un lato si mettono le imprese e le startup in condizione di poter operare alla pari con i propri competitor globali; dall’altro, si consente la decongestione dei grandi centri urbani dai knowledge workers che in questo modo possono lavorare serenamente da casa o dal proprio paese d’origine – consentendo importanti ricadute positive da un punto di vista sociale.
Ottima anche l’attribuzione di 74,3 miliardi alla transizione ecologica, a condizione che il tutto non venga disperso in operazioni di facciata o in scelte a metà. Tanto per fare un esempio, essi dovrebbero essere investiti nell’efficientamento energetico degli edifici, nella produzione di energia da fonti rinnovabili e nella transizione all’elettrico degli autoveicoli – evitando, tuttavia che siano l’ennesima mancia da rottamazione per la transizione da un Euro 3 ad un Euro 4. In questo settore, vanno fatte scelte radicali, mettendo fuori gioco in uno spazio di dieci anni le automobili a combustione interna, e costruendo contemporaneamente l’infrastruttura di ricarica degli autoveicoli elettrici.
L’attribuzione di 27,7 miliardi alle infrastrutture, se pur discreta in sé, va in realtà attentamente monitorata. C’è una parte del Paese quasi completamente sprovvista di infrastrutture adeguate al XXI secolo. La costruzione di una rete ferroviaria ad alta velocità in Sicilia ed in Puglia, la realizzazione di una vera alta velocità tra Napoli e Bari, lo sviluppo della dorsale adriatica, sono tutti obiettivi fondamentali per la crescita economica di questi territori. Su questa base, come già detto in passato, bisogna evitare di realizzare l’ennesima, inutile BRE-BE-MI, ma investire dove il bisogno e le prospettive di sviluppo sono più elevati.
Dove si comincia ad alzare decisamente un sopracciglio è nel leggere l’attribuzione di 19,2 miliardi all’istruzione e di 17,1 miliardi alla “parità di genere”.
L’investimento sull’istruzione appare troppo piccolo, specie se si considera che la pandemia ci ha messi di fronte alla necessità di ripensare completamente il nostro modello educativo, che non può più essere quello del XX secolo. Siamo di fronte a generazioni per le quali il rischio di dissonanza cognitiva tra la propria vita di nativi digitali e la realtà semi-anchilosata di una scuola che solo attraverso l’eroismo dei propri insegnanti riesce a non essere noiosa, è molto elevato. È poco comprensibile, inoltre, come in presenza di tali problemi si decida di investire così poco, specie tenendo a mente che il Recovery Plan deve essere speso per generare moltiplicatori economici, e che l’investimento sulle competenze dei cittadini è la migliore garanzia di uno sviluppo futuro.
Il contrasto diventa stridente quando si pensa che una cifra quasi pari viene attribuita alla “parità di genere”. Quest’ultima, se pur con limitazioni che magari si discuteranno in un altro articolo, può essere un obiettivo in principio condivisibile, ma non appare un’urgenza così pressante rispetto all’obiettivo di recupero economico. È presumibile, infatti, che la maggior parte di tali fondi vengano attribuiti ad ONG che si occupano di questo tema, le quali per definizione non costituiscono soggetti di sviluppo economico. E allora, qual è l’obiettivo di questa attribuzione?
Il tutto diventa infine completamente incomprensibile quando si scopre che alla sanità vengono attribuiti 9 miliardi, la metà rispetto all’istruzione ed alla parità di genere; un terzo rispetto alle infrastrutture; un quinto rispetto alla digitalizzazione ed un ottavo rispetto alla transizione ecologica.
Se c’è una cosa che avremmo dovuto imparare da questa pandemia, e ne abbiamo dato conto in un altro articolo, è che la sanità non può essere considerata come una funzione ancillare rispetto alle necessità del Paese. Non è un centro di costo, né può essere il terreno di scontro politico per l’attribuzione di cariche amministrative, o, peggio, di direzione sanitaria. È un luogo ove è in gioco la salute di tutti noi, la quale è il fondamento necessario per poter fare il resto.
Se fossimo un Paese saggio, impareremmo dall’esperienza terribile dell’ultimo anno che in primo luogo bisogna garantire l’essenziale. Avere chi ci cura, se stiamo male, e chi ci soccorre se siamo in pericolo. Dimenticarsi ancora una volta di medici, infermieri e soldati, oltre ad essere un atto di enorme ingratitudine, è un attentato alla nostra stessa capacità di esistere e di produrre, per poi poterci occupare di temi sociali.
Ancora una volta, come in un antico detto, rischiamo di comprarci il frustino, prima di aver comprato il cavallo.