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Diegol

L'ultimo saluto al campione

Certi articoli si scrivono il giorno dopo del giorno dopo, perché il giorno dopo è facile. Ti butti nella mischia di tutti quelli che fanno a gara a ricordare, santificare e piangere, perché la ritualità della morte ti richiede questo. E a me i riti non sono mai piaciuti particolarmente.

E si scrivono anche fuori posto, perché a scrivere su un giornalone generalista son capaci tutti. Hai il pubblico assicurato che vuole sentirsi raccontare proprio quegli stilemi: vita e morte, genio e dannazione, talento e autodistruzione. E a me vincere facile non è mai piaciuto particolarmente.

Quindi tu, lettore di un magazine di sicurezza informatica con un occhio attento al mondo più ampio della tecnologia e del suo impatto sulla società, puoi fermarti qui. Questo articolo è per me, per me solo, ed è un dialogo dell’anima di un uomo adulto con l’anima del sé stesso di qualche decennio fa.

Per capire veramente, tu che sei andato oltre le prime righe, devi essere innanzitutto un ragazzo di periferia. Non solo essere nato ai bordi di una grande città, ma essere nato in un quartiere in cui i bambini giocano in strada, mettendo due giacche a terra per fare i pali della porta, e insieme agli avversari si dribblano pure le poche macchine che passano.

Devi essere nato in un posto dove impari fin da piccolo a stare attento, hai i sensi sviluppati di un cerbiatto in un mondo di lupi, e quando vai a scuola al mattino ai bordi dei marciapiedi ci sono mucchi di siringhe che sai essere frecce di morte per la generazione più grande di te e per il tuo futuro.

E devi avere un talento, uno qualsiasi, ma che brilla come il sole. Avere le mani che volano sulla chitarra presa a prestito, o trattare con confidenza assoluta il pallone, oppure assorbire come una spugna le parole dei tuoi insegnanti, mentre mondi nuovi si disegnano nella tua testa.

Se sei nato in un posto così, ed hai un talento, allora capisci bene che quest’ultimo è una porta verso il mondo che però ti lascia indifeso appena la varchi. Nessuno di quelli che avevi intorno lo ha fatto prima di te, nessuno può guidarti, nessuno può dirti cosa è giusto e cosa è sbagliato.

E quando sbatti nel mondo, puoi farti male di brutto. Il tuo talento ti porta agi che non hai mai visto, ed improvvisamente ti trovi a frequentare da padrone quei grandi alberghi della città che guardavi da fuori nelle passeggiate della domenica con la famiglia, quando attraverso le vetrate vedevi un mondo distante come la Luna. Quanto più alto è il salto che fai, più rischi che tutto questo ti dia alla testa, e puoi fare cose sbagliate, anche molto sbagliate, come è capitato a te.

E poi, ti scontri con quelli che non esistevano da dove vieni. In periferia, un talento è rispettato e acclamato, perché tutti vincono insieme a te. Nel mondo, quelli che non hanno il tuo talento, oppure competono con te, fanno di tutto per screditarti e distruggerti.

Non puoi giocare al loro gioco, perché non hai imparato a farlo. In periferia le questioni si risolvono a viso aperto, magari prendendosi a pugni, ma pronti di nuovo a mettere le giacche a terra e a dribblarsi come se non fosse successo niente. Nel mondo, devi imparare i modi del serpente, o diventare cacciatore di serpenti, magari mentre ti mordono le caviglie con il loro veleno.

Io so che tu capisci, Diego, perché tra la periferia di Buenos Aires e quella di Napoli non ci sono tante differenze. Chi ha visto di te solo il genio del pallone, o solo il disperato tossicodipendente, o il ribelle globale, non ha capito nulla. Non fargliene una colpa, perché non ha mai giocato a biglie nelle spaccature dell’asfalto, e la sua giacchetta non è mai andata a terra.

Quelli come noi si riconoscono come navi nella notte, e si scambiano un cenno di saluto con un semplice lampo d’occhi, luce accesa per un attimo sul mondo piccolo che ci ha visti crescere. Ed il saluto ultimo ti venga dal ragazzino di periferia, che con te ha alzato per la prima volta le mani al cielo il 10 maggio 1987.

Vaja con D10S.

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