
Da buon cittadino americano, devo confessare che ho vissuto le ultime due settimane con una certa apprensione dovuta in parte al fatto che negli anni (e alla luce dell’ultimo fiasco di quattro anni fa) ho maturato una certa diffidenza verso le cosiddette previsioni elettorali offerte senza posa dai media.
Parlo delle proiezioni che davano la Clinton vincente quattro anni fa e Biden fautore di una vittoria stracciante di dimensioni senza precedenti fino a qualche giorno fa. La cosiddetta “onda blu”.
Mantengo un fitto network di amici in Italia che mi aiuta a districarmi nella gradevole giungla delle infinite culture cui sono esposto giornalmente a causa del mio lavoro, senza perdere contatto con la mia. Insomma una sorta di centro di gravità culturale che verifica e garantisce lo stato di salute delle mie radici in modalità automatica; uno spaccato che tocca tutti i livelli del sociale e di cui vado molto orgoglioso. Persone con cui ho diviso il cammino della vita per qualche passo o con cui ho stabilito legami tanto stretti che la grande distanza e le diverse direzioni intraprese hanno mancato di intaccare per motivi con i quali prometto di non annoiarvi.
Needless to say, in questi ultimi giorni una domanda impera sulle mie homepages: “Come va in questo momento? Che ne pensi dei risultati delle elezioni”?
Questo articolo è un succinto tentativo di mettere tutto al suo posto, segnale di fumo d’oltreoceano che tutto va bene mentre organizzo controvoglia il mio “file “di riferimento immaginario, che appare al momento bisognoso di ordine e chiarezza.
Mi sono imbattuto per caso- galeotto fu il mio network- in un articolo di Andrew Sullivan del 6 Novembre sul blog “The Weekly Dish”, intitolato “Trump Is Gone. Trumpism Just Arrived”.
Sullivan è un commentatore politico americano di origine inglese che ha collaborato negli anni con pubblicazioni come “The Atlantic” e “The New York Times” e per quanto faccia parte del folto gruppo di giornalisti che ritengono Donald Trump “persona non grata”, nonché’ piaga di sovrumane quanto titaniche dimensioni per il Paese e l’umanità tutta, non lo ritengo un “hater”, ossia persona in preda a quell’eccessivo coinvolgimento emotivo che continua con sorprendente quanto incessante consistenza a mietere vittime, immolandole sul sacro altare della razionalità e dell’onestà intellettuale.
Sullivan inizia il suo articolo mettendo le cose ben in chiaro; Donald Trump è stato sconfitto. Non servirà il secondo termine come la maggior parte dei presidenti americani. E la sua sconfitta non era inevitabile. Ma in un afflusso alle urne senza precedenti dove entrambe le parti sono state in grado di mobilitare un numero inaspettato di voti, e dove il partito repubblicano ha guadagnato posizioni importanti nella Camera dei Rappresentanti, ha perso.
Una “massa critica” di elettori incerti e repubblicani moderati, ha fatto inclinare la bilancia verso il metaforico piatto sinistro.
Ma i risultati di questa elezione sono lungi dal corroborare i prognostici offerti dai mass media, anzi per molti versi ed ancora una volta, ne sconvolgono l’attendibilità.
L’impatto di Trump sulla nuova costellazione politica che emerge dalle ceneri di questa elezione è innegabile anche all’hater dalla salivazione più abbondante.
Ha consolidato e ridefinito il GOP (partito repubblicano) con un successo senza precedenti.
Il nuovo partito appare composto da un core “nazionalista, culturalmente conservativo, concentrato sia sui perdenti del capitalismo come sui suoi vincitori, e leggermente protezionista e isolazionista”. È la risposta naturale, spiega Sullivan, alle indesiderate conseguenze del successo del neoliberalismo sotto una bandiera conservativa. E parla una lingua comprensibile alla classe lavoratrice americana, spoglia degli ideologismi razzialmente e politicamente corretti dell’élite colta.
Uno dei dati più espliciti, emerso dai sondaggi effettuati in questi giorni all’uscita dei seggi elettorali, è cristallizzato dalle risposte alla domanda resa famosa da Reagan “ritieni di stare meglio adesso o quattro anni fa?”.
Reagan fu rieletto da una maggioranza schiacciante e nei sondaggi il 44% degli intervistati rispose di riconoscere un migliorato benessere alla fine del suo mandato presidenziale. George W. Bush vinse con 47% ed Obama con 45%.
Nel caso di Trump, si parla di un sorprendente 56%. E nonostante ciò ha perso.
Questo particolare può forse aiutare a proiettare uno spiraglio di luce ai fini della comprensione del profondo gap tra l’efficacia politica della sua amministrazione e l’indice di “gradevolezza” della sua persona.
I riots di quest’estate non hanno mancato di dirottare parecchi voti nella direzione opposta a quella sperata dal partito democratico. Nei sondaggi in uscita dai seggi elettorali, l’88% dei votanti per Trump ha dichiarato che i riots sono stati un fattore determinante nella loro scelta. Sulla domanda circa l’importanza di giustizia criminale e forze dell’ordine, Trump era infatti in testa a Biden del 46/43%.
Durante gli ultimi 4 anni, i democrats ci hanno ripetuto che Trump ed i suoi supporters erano suprematisti bianchi e che le minoranze etniche erano sotto assalto dall’equivalente moderno del Ku Klux Klan. Eppure il GOP ha ricevuto la percentuale più alta di voti di minoranze etniche dal 1960!
A quanto pare, il 12% del pool elettorale di colore ed il 18% degli uomini di colore hanno appoggiato un candidato che la sinistra definisce “un suprematista bianco” ed il 32% dei Latinoamericani ha votato per “l’uomo che chiude i bambini immigrati in gabbie”.
Come se ciò non bastasse, ha votato Trump anche il 31% degli elettori di origine asiatica ed il 28% della popolazione “gay, lesbian e transgender”.
Sullivan si chiede del perché’ le minoranze razziali abbiano virato leggermente a destra dopo quattro anni di Trump. Un motivo appare chiaro. Esiste un palese rifiuto della narrativa proposta dalle fonti dei media di élite che l’appeal di Trump sia di base razzista. A quanto pare esiste una parte considerevole dell’elettorato di minoranza la cui analisi fa affidamento ad una realtà più complessa di quella pre-confezionata dai media. Sullivan ad esempio, sospetta che molti Afro-Americani siano terrificati all’idea del “defund the police”, l’iniziativa di diminuire in maniera drastica i fondi a disposizione delle forze dell’ordine. E tali gruppi risultano soddisfatti del benessere economico ed i record di disoccupazione ad un basso storico prima di Covid19.
Altro fattore interessante che risulta dai sondaggi in uscita, è il considerevole numero di cittadini americani di origine latinoamericana che si oppone all’immigrazione illegale e di massa.
Ovviamente la maggioranza degli elettori di colore ha votato per Biden.
Ma l’emergere delle minoranze a matrice conservativa propone un cambio di rotta e rende obsolete le teorie main stream su come queste reagiscano allo status quo in sede elettorale.
Altro esempio è il cosiddetto “gender gap”. Ci è stato ripetuto, durante gli ultimi 4 anni che essere donna nell’America di oggi comporta continui incubi di sottomissione, oppressione, molestie sessuali e violenza e che nessuno incarnasse meglio il punto focale del grande disagio che la spregevole persona di Donald Trump. Ma la donna bianca, inconsapevole di ciò, ha votato per Trump in percentuali che vanno dal 55 al 45%.
Tra le donne non di colore non in possesso di laurea universitaria -forse la categoria più a rischio di essere vittima di aggressione a sfondo sessuale- Trump ha ricevuto il supporto del 60%.
La verità, continua Sullivan, è che siamo un paese diviso, il cui gap sociale e culturale continua ad allargarsi, strumentalizzato a turno dall’estremismo di destra e sinistra, ma fondamentalmente sano.
l’America è un vasto quanto complicato Paese ed i nostri rappresentanti politici rispecchiano questo fatto.
Questa è democrazia in azione, non in declino.
In un Paese del genere, esiste un posto ideale dove dare origine al compromesso, solo se siamo in grado di distaccarci dall’isteria e la polarizzazione che sono state accese dall’estrema sinistra ed esacerbate dalla dialettica di Trump, con la complicità di un sistema di comunicazione e diffusione della notizia in forte necessità di auto analisi e cambiamento.
E ci arriveremo solo se saremo in grado di utilizzare questo momento per ascoltarci a vicenda, prestando particolare attenzione a quelli le cui opinioni abbiamo respinto e le cui identità abbiamo temuto.