ECONOMIA

Un calcio alla miseria

Esiste un’industria, in Italia, che dà lavoro a diverse migliaia di occupati, sia direttamente, sia attraverso l’indotto, che sta vivendo come altre momento di grande difficoltà. Le caratteristiche di questa industria sono tuttavia peculiari: in primo luogo, la maggior parte delle società di grandi dimensioni che la compongono e che muovono la quantità maggiore di fatturato usano fortemente la leva finanziaria per assicurare il proseguimento delle proprie attività. Ciò vuol dire che sono in grado di raggiungere valori nominali elevati in termini di dimensione del fatturato, ma al prezzo di una notevole quantità di debiti. Quest’ultima è talmente elevata, che in molti casi genera un disavanzo forte nel bilancio, che negli ultimi mesi ed anni è stato spesso tamponato attraverso delle alchimie contabili o dei processi di ricapitalizzazione.

Questo tipo di conduzione aziendale sarebbe giustificabile se si trattasse di una industria a forte intensità di investimento nella ricerca e sviluppo, a fronte dei quali si prevedessero ricavi incomparabilmente più elevati, che a lungo termine generassero un beneficio per gli azionisti. L’industria suddetta, invece, utilizza la maggior parte del capitale preso in leva per garantire stipendi multimilionari ad un numero relativamente ristretto di persone. Essendo funzionali alla conduzione del business, tali persone potrebbero in senso lato essere considerate degli asset, ma nella realtà non è così. La loro capacità di generare fatturato è progressivamente diminuita negli ultimi anni, a causa di uno sbilanciamento tra il prodotto offerto e la numerosità di utenti disposti a spendere cifre relativamente alte per fruirlo. Invece di effettuare la scelta di ridurre progressivamente la propria struttura di costi, a garanzia della tenuta di lungo termine della propria azienda e dell’intero comparto nella sua generalità, la maggior parte degli imprenditori delle società maggiori ha invece scelto di continuare nell’uso progressivamente più sostanziale della leva finanziaria, supportato in maniera sempre meno efficace dal valore azionario per quelle tra loro che sono quotate in borsa. 

In questo momento di grande difficoltà economica e sociale, attivato dalla prima ondata di coronavirus e rafforzato dai prodromi della seconda, anche questa industria si è attivata per richiedere al governo misure di ristoro che consentano al sistema di procedere secondo il proprio funzionamento consueto, ed evitino il collasso di una o più delle società maggiori, gravate in maniera preponderante rispetto alle altre dal peso di debiti scarsamente sostenibili in mancanza delle entrate derivanti da vendite dirette del prodotto e dalle sponsorizzazioni. 

Questa industria è il calcio professionistico, il quale vive evidentemente da anni molto al di sopra delle proprie possibilità, assicurando ai propri protagonisti, ai manager che li gestiscono, ai proprietari delle società che li impiegano, stipendi molto al di sopra di quanto la struttura economica del sistema consentirebbe loro di percepire.

Per il cittadino comune rimane incredibile la richiesta della Lega di Serie A al governo di intervenire a favore delle società ad essa iscritte, le quali, con poche lodevoli eccezioni, sono tutte fortissimamente in passivo. Posto che una partita di calcio può essere giocata da qualunque squadra che si presenti in campo il numero sufficiente, irrispettivamente dallo stipendio dei singoli giocatori, la soluzione per evitare il default per queste società è piuttosto semplice, e si applica a qualunque azienda che sia nella stessa condizione: la riduzione della struttura dei costi. L’attuale monte ingaggi di molte società pesa come un macigno sulla propria capacità di esistere in maniera sostenibile. 

La ridiscussione degli stipendi porterebbe senza dubbio molti protagonisti a lasciare l’Italia, ma siamo piuttosto convinti che il sistema calcio nella sua interezza continuerebbe ad esistere anche senza di loro. Ricordiamo infatti un tempo in cui i calciatori provenivano da realtà per le quali guadagnare uno stipendio come quello che veniva offerto loro dalle squadre consentiva di svolgere una vita decorosa come a qualunque altro lavoratore. Era il tempo allora della misura in tutte le cose, e la priorità di un leopardiano vincitore nel pallone non era l’acquisto dell’ennesima macchina di lusso, quanto l’investimento in attività che creassero lavoro e gli consentissero contemporaneamente una vita senza affanni. 

Dovendo nei prossimi mesi fare i conti con la crisi profonda e la disperazione di centinaia di migliaia di lavoratori gli altri settori produttivi, nonché alle grandi necessità sanitarie che questa ennesima sfida al virus ci imporrà, sostenere delle società di onesti e superpagati pedatori non ci sembra dover essere una delle priorità nazionali. 

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