CITTADINI & UTENTI

Di cosa parliamo quando parliamo di odio

Spesso si sente parlare di haters e di hate speech. Ma di cosa si tratta esattamente?

L’odio secondo l’accezione attuale ha almeno un secolo di vita: affermatosi all’epoca dei totalitarismi di inizio Novecento, è andato differenziandosi in tre diverse sottospecie: l’odio razziale, l’odio politico e l’odio religioso. A partire dalla fine degli anni Settanta, inizio anni Ottanta, poi si è aggiunta una quarta tipologia di odio: l’omofobia.

Mentre in Europa, memori del periodo dei totalitarismi che si erano affermati mediante una propaganda di odio verso quelle che venivano definite “razze inferiori”, nel dopoguerra si è optato per disciplinare questo genere di espressioni attraverso delle leggi che andassero a colpire tali comportamenti, in America, seguendo l’idea dei diritti fondamentali quali libertà negative nei rapporti Stato-cittadino, hanno ritenuto inconciliabile con i loro valori l’idea di andare a limitare o addirittura reprimere le opinioni delle persone.

Un passo avanti si è avuto ad opera delle Nazioni Unite, il cui trattato del 1976 – Patto Internazionale sui diritti civili e politici – afferma solennemente all’art. 20 c.2 “Qualsiasi appello all’odio nazionale, razziale o religioso che costituisce incitamento alla discriminazione, all’ostilità o alla violenza deve essere vietato dalla legge”.

Anche nel contesto europeo le dichiarazioni solenni hanno lo stesso ideale di fondo: l’art. 14 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) – rubricato Divieto di discriminazione – tratta «Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o quelle di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita od ogni altra».
Non ultima la raccomandazione del Consiglio d’Europa, datata 30 ottobre 1997, secondo la quale: «Il termine -discorso d’odio-, o hate speech,  deve essere inteso come comprensivo di tutte le forme di espressione che diffondono, incitano, promuovono o giustificano l’odio razziale, la xenofobia, l’antisemitismo o altre forme di odio basate sull’intolleranza, tra cui: intolleranza espressa da nazionalismo aggressivo ed etnocentrismo, discriminazione e ostilità contro le minoranze, i migranti e le persone di origine immigrata».

Nel terzo millennio, con la globalizzazione e l’avvento dei social network, si può affermare che l’odio non è più soltanto connesso ai concetti di razza, religione e politica, ma anche ad altri ambiti, come quelli degli animalisti o dei No Vax, ragion per cui il controllo di questo fenomeno diffuso è divenuto più complesso.

Oggi l’hate speech – o discorso d’odio – non è oggetto di una descrizione universalmente condivisa. Una delle opinioni più apprezzabili in dottrina lo definisce come “discorso finalizzato a promuovere odio nei confronti di certi individui o gruppi, impiegando epiteti che denotano disprezzo nei confronti di quel gruppo a causa della sua connotazione razziale, etnica, religiosa, culturale o di genere”.


Si tratta di una nuova forma di manifestazione di un fenomeno che tende a sottolineare la diversità con l’altro e, come approfondito dal filosofo Emmanuel Lévinas, tutto ciò porta ad alimentare i pregiudizi, consolidare gli stereotipi e conseguentemente l’ostilità, fino a identificare l’altro come “radicalmente diverso”.

Il problema è chiaramente l’uso dell’odio, il modo in cui viene veicolato, la scelta, o per taluni il rischio, di utilizzarlo per potersi affermare sull’altro, sul diverso. L’idea del hate speech come strumento per rinforzare le proprie idee e screditare quelle altrui.

È sotto gli occhi di tutti che l’affermazione di internet e, soprattutto, dei social network abbia determinato un’accentuazione – quantomeno dal punto di vista quantitativo – delle forme di intolleranza.

Le piattaforme digitali dove chiunque può, celandosi attraverso l’anonimato, esternare il proprio pensiero ad una platea infinita di persone unito alla possibilità che queste affermazioni permangano in rete, fanno si che il fenomeno dell’hate speech assuma una centralità nel dibattito giuridico attuale, perlomeno italiano, in merito a possibili strumenti, penali civili o amministrativi, per verificare ed eventualmente rimuovere affermazioni che ledono l’uguaglianza e la dignità umana.

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