
Il suicidio, dalla filosofia greca antica in poi, è stato oggetto di interminabili discussioni filosofiche e religiose, con solo fugaci accenni ad una malattia come causa del fenomeno. Solo a fine ‘800 cominciano a prodursi i primi studi statistici dedicati interamente all’argomento con metodologia scientifica.
Fino ad allora, con rare eccezioni, il secolare dibattito sul suicidio si era concentrato sulla ricerca di una qualche causa esterna a cui attribuire quel gesto, con evidente negazione (tratto che accompagna ogni forma di Disturbo Psichiatrico) degli aspetti interni al soggetto.
In generale fa molta paura la malattia psichica e, si tende ove si può, ad escluderla come fattore causale predominante, come ad esempio in alcuni eventi mediatici di crimini, così come a negarla nella vita quotidiana. Le masse Italiane si distinguono dal resto d’Europa, per essere in una posizione di negazione, e non di accettazione, rispetto alle tasse, la morte ma anche sulla malattia mentale. Negli ultimi decenni l’aspetto sociologico del suicidio è stato sempre più ridotto da studi epidemiologici e dalla pubblicazione di lavori della comunità scientifica che dimostrano come il problema psicopatologico interno all’individuo sia la più importante causa di suicidio, più che i contesti ambientali in cui il soggetto si è venuto a trovare. La quasi totalità degli studi con approccio scientifico al problema concorda che circa il 90% dei suicidi è attribuibile a Malattia Psichiatrica e che nella maggior parte dei casi è conseguenza di una forma di depressione grave.
Il movente esterno agirebbe al massimo come elemento scatenante di una predisposizione a volte su base genetica alla depressione ed anche al suicidio. In altri termini, ci può essere anche una condizione ambientale critica e dunque difficile da gestire ma senza la presenza della depressione i pensieri di suicidio possono apparire alla coscienza dell’individuo ma mai indurre gesti autolesivi che porteranno alla morte. A dispetto di ciò, assistiamo all’enfatizzazione del motivo economico su cui vengono incentrate molte notizie per conformarsi alla a vulgata mediatica scandalistica del momento.
In questi ultimi mesi si è letto ampiamente di suicidi di disoccupati e imprenditori per effetto della crisi economica o lo spavento portato dal COVID.
Su un quotidiano che raccontava il dramma di Viviana Parisi, la madre del piccolo Gioele, morta dopo un incidente stradale in circostanze misteriose si poteva leggere: “su una psiche fragile e tormentata dalla paura del contagio, il lockdown ha pesato in modo fatale”: il giornalista non tenta minimamente di esplorare di che fragilità psicologica si trattasse e da quali elementi si deducesse che “la paura del contagio” fosse stata alla base del gesto. Un altro caso a Portici, area metropolitana di Napoli: un caso di omicidio-suicidio di un uomo di 65 anni ossessionato dal virus “come riferito da alcuni testimoni” che ha ucciso la moglie dopo averla accusata di sottovalutare il pericolo del contagio e si è quindi lanciato nel vuoto dal quarto piano. Paura del Covid? O la sua delirante paura?
Un altro caso a Firenze: un ristoratore 44enne benestante morto suicida nel suo locale. Dopo il lockdown non credeva nella ripresa e ha deciso di farla finita per paura di non farcela.
Se si analizzasse la storia clinica della maggior parte di questi pazienti si troverebbero patologie psichiatriche gravi e su tutte, una depressione grave.
Senza voler trascurare le criticità economiche che possono scatenare il gesto, si dovrebbe considerare il Disturbo Psichico prima di ogni altra cosa.
Nel 2012 in Grecia la crisi economica fu devastante ed indelebili sono le immagini di quei bambini morti di stenti o per la mancanza di cure mediche. In quell’anno, il tasso annuale dei suicidi fu il 3% per 100mila abitanti.In Germania dove la situazione fu di gran lunga più favorevole il tasso di suicidi in quell’anno fu del 10% per 100mila abitanti ed in Francia, stesso periodo, il 15% ogni 100 mila abitanti. Se la correlazione tra crisi economica e suicidi fosse vera, la percentuale dei suicidi piu’ alta sarebbe dovuta risultare in Grecia.
Negli ultimi cinquant’anni i ricercatori in Europa che studiano il rapporto tra disoccupazione e suicidi mettono in evidenza una paradossale diminuita frequenza di suicidi nei paesi con un’economia meno florida. Alcuni ipotizzano che in una popolazione in cui i problemi occupazionali sono diffusi verrebbe a mancare la vergogna, uno dei fattori precipitanti nel passaggio dall’idea del suicidio all’atto.
La scomoda verità non compresa dal mainstream mediatico (forse in malafede, per non conoscenza o per convenienza) è che uno stato psichiatrico gravemente alterato spesso dalla depressione endogena è una condizione necessaria per togliersi la vita.
In realtà pochissime persone pur disoccupate o strangolate dai debiti pensano al suicidio, pur afflitti da una depressione reattiva. La Svezia dove la vita è esente da simili criticità socio- economiche detiene il più alto tasso di suicidi annuali, perché è alto il tasso di depressione endogena.
Cercare cause esterne al soggetto può essere un esercizio inutile e di dubbio potere preventivo, visto che l’individuo non ha strumenti per cambiarle.
L’informazione, al contrario, può salvare delle vite: divulgare che la depressione è un male trattabile sia farmacologicamente che con interventi psico-educativi, come sanno tutti gli addetti ai lavori, sarebbe auspicabile e di gran lunga più utile.