
Agli eletti , si sa, si addicono regole ben soppesate e calibrate. . L’esercizio delle loro funzioni sono tanto delicate da non poter essere investite dalla furia digitale che invece caratterizza la vita nel resto del Paese.
E occorre andarci piano con la semplificazione. La Camera dei deputati discute se poter ricorrere al voto a distanza cambiando il regolamento che ora lo esclude.
In Spagna, Germania e Gran Bretagna il voto a distanza dei parlamentari è conosciuto e praticato. Anche all’Europarlamento. Ma in Italia il voto parlamentare a distanza ancora no. Piuttosto che introdurlo si è preferito utilizzare la scorciatoia, perfettamente regolamentare, di equiparare l’assenza in aula dei parlamentari in quarantena alla “missione autorizzata”. Da un lato la soluzione consente di abbassare il quorum necessario per l’approvazione dei provvedimenti in discussione. Dall’altro la medesima equiparazione produce un effetto straniante, quasi ridicolo.
Ci sono almeno due considerazioni che insorgono spontanee. Da una parte le Assemblee che approvano i provvedimenti governativi pieni zeppi di smartworking e dematerializzazioni digitali , scorgono ed indicano problemi assai rilevanti quando tali misure minacciano di entrare nei loro usi e costumi.
La seconda considerazione è legata alla “cosa in se”: ovvero alla semplicità del gesto necessario per superare la distanza fisica in caso di impedimenti. Si ritiene che la protezione dei dati degli onorevoli chiamati ad esprimere assenso, diniego o astensione nei confronti dei provvedimenti all’esame nelle Aule di Montecitorio e Palazzo Madama possa essere facilmente garantita. Risulterebbe difficile comprendere per quale motivi, ad esempio, l’app. Immuni debba essere utilizzata da tutti i cittadini in quanto sicura , parola di Comitatotecnico/Presidenzadelconsigliodeiministri, mentre il voto a distanza dei nostri eletti lo possa essere meno.
Un Parlamento che approva in due e due quattro meno calcetto e più coprifuoco per tutti non da un esempio fulgido incagliandosi per due settimane relativamente al voto a distanza.
E’ probabile che nelle prossime ore la proposta sottoscritta da più di 120 deputati relativa alla istituzionalizzazione del voto a distanza, venga infine recepita. Di fatto è sul tavolo della Giunta del regolamento della Camera e il Presidente Roberto Fico ha promesso che la prossima settimana la stessa Giunta tornerà a riunirsi. Si riunirà, da informazioni raccolte, per discutere a tutto tondo sulla propria digitalizzazione, a partire dagli atti parlamentari, al telelavoro rappresentativo , al lavoro in emergenza e infine al voto a distanza.
Ma lo farà non per convinzione ma solo perché necessitata e perché più che l’ammodernamento deve difendere la tenuta della maggioranza e quindi la sopravvivenza di se stessa. E’ questo il motivo per cui la proposta del voto a distanza è farina del sacco del deputato Pd ( e costituzionalista) Stefano Ceccanti ed ha raccolto in poco tempo più di 100 firme. Ed è anche il motivo per il quale il ministro per i rapporti con il Parlamento, Federico D’Incà, si affretta a precisare che la legittimità del voto a distanza varrà per tutto il periodo dell’emergenza perché è solo in questo periodo che i deputati malati o sottoposti a quarantena devono garantire la tenuta del quadro politico e di quello governativo.
Considerando l’asimmetria con cui i provvedimenti che toccano da vicino le funzioni vitali della vita nel Paese vengono adottati, recepiti e validati e l’estrema cautela con cui medesimi provvedimenti vengono soppesati, ispezionati, vivisezionati e circoscritti, viene da immaginare l’alba in cui un Dpcm irrompe dall’alto, rompe gli indugi e impone il voto a distanza anche per i deputati. Con una bella conferenza stampa in diretta e a reti unificate alle 20 di sera.
D’accordo: non accadrà mai perché non può accade. Ma sarebbe bello.