
A pochi giorni dalla conclusione della tornata elettorale che ha sancito i nuovi equilibri all’interno del Paese, è doverosa una parola di commento. Non perché ci interessi più di tanto l’appartenenza politica di chi ha vinto o perso – per noi, nel mondo moderno i partiti sono etichette di comodo che poco hanno a che fare con le idealità del XIX e del XX secolo. Piuttosto, siamo interessati ad analizzare le possibili conseguenze del nuovo assetto, in particolare in sede regionale, e a indicare alcune possibili linee di sviluppo strategico e tecnologico del Paese, che è invece un argomento che ci interessa molto.
I risultati hanno indicato con grande chiarezza un aspetto di sistema: l’affermazione in diverse regioni di governatori che hanno puntato sul carisma personale, e soprattutto sulla capacità amministrativa dimostrata nell’ambito dell’ultimo mandato, le possibilità di affermazione. Di contro, si è assistito al crollo verticale delle compagini partitiche di stampo populista, specie di quelle basate sull’individuazione di un avversario e sulla propagazione sistematica dell’odio nei confronti dello stesso, più che sulla presenza di una visione politica e strategica per il futuro. L’elettorato ha quindi – con un certo personale sollievo – premiato i soggetti che abbiano saputo dimostrare concretezza, i quali hanno vinto nelle proprie regioni nonostante e spesso in contrasto con la linea politica centrale, fatta spesso di inutili chiacchiere da salotto blasé o da sagra della luganega.
Di particolare interesse è il caso delle affermazioni a vasta maggioranza o addirittura a maggioranza quasi bulgara, dei governatori della Campania e della Puglia. Un livello di consenso che si è rarissimamente visto in altre consultazioni e che costituisce per questi territori un’occasione quasi irripetibile. I rispettivi governatori, infatti, hanno la possibilità di sbattere con forza i pugni sul tavolo nazionale perché, come richiesto peraltro dalle condizioni sancite dall’Europa per l’erogazione dello stesso, il Recovery Fund sia speso in maniera consistente nelle proprie regioni.
E per chi guardi spassionatamente le priorità individuate dall’ esecutivo nazionale per la spesa dei finanziamenti europei, è evidente che il meridione d’Italia debba essere il destinatario di investimenti strutturali che ne migliorino in maniera consistente l’offerta di servizi a favore dei propri cittadini. Si parla infatti di equità, inclusione sociale e territoriale; rivoluzione verde e transizione ecologica; infrastrutture per la mobilità; istruzione e formazione; salute; digitalizzazione e innovazione.
Non staremo qui a fare l’elenco delle ragioni per le quali ognuno di questi capitoli richiama immediatamente la spesa di fondi a favore delle regioni meridionali, basta fare riferimento al più recente rapporto SVIMEZ. I dati mostrano chiaramente che si tratta dei territori che maggiormente soffrono di diseguaglianza territoriale rispetto al resto del paese, che soffrono della cronica e colpevole trascuratezza nei confronti delle infrastrutture scolastiche, che a causa delle condizioni in cui versano i propri ospedali – che pure riescono ad esprimere eccellenza – soffrono di migrazione sanitaria a favore delle regioni del Nord.
Vogliamo invece focalizzarci sugli aspetti riguardanti le infrastrutture fisiche e virtuali, e di come questi due capitoli costituiscano un’occasione di sviluppo territoriale senza precedenti. La mancanza di ferrovie ad alta velocità nel meridione condiziona in maniera negativa la capacità di condurre business delle aziende ivi stabilite. Negli ultimi giorni è stata trionfalmente annunciata la realizzazione del tratto ferroviario ad alta velocità tra Napoli e Bari. Ma se si legge con un minimo di attenzione cosa sarà realizzato, ci si sente immediatamente come l’americano a cui Totò vendeva la Fontana di Trevi in un celeberrimo film. Secondo il progetto, la tratta in questione collegherà i due capoluoghi regionali, separati più o meno dalla stessa distanza che separa Napoli da Roma (242km vs. 226 km), nel doppio del tempo impiegato dal Frecciarossa a collegare queste due ultime località. Neanche cominciamo a parlare della situazione calabrese o siciliana – in linea di principio Napoli e Reggio Calabria potrebbero essere collegate in poco più di tre ore invece delle cinque attuali; e Messina e Trapani in poco meno di due, mentre allo stato attuale se ne impiegano nove. Con i finanziamenti adeguati, si può certamente fare molto di meglio per portare questi territori allo stesso livello di accesso garantito ad altri – e di inutili e vuote BREBEMI ce ne sono francamente fin troppe.
Ma dove l’occasione è unica ed irripetibile, è nel campo delle infrastrutture digitali. Come più volte osservato, la pandemia di COVID-19 ha fatto capire quanto sia possibile trasferire in remoto la maggior parte dei knowledge workers. In questo modo si decongestionano le città, si arresta ed anzi si capovolge la direzione dell’emigrazione lavorativa, ed in generale si va verso un modello di sviluppo più sano, umano e centrato sul bilanciamento tra vita lavorativa ed individuale.
Il Meridione ha già numerosi fattori abilitanti per diventare un crocevia dello sviluppo italiano digital-driven nel XXI secolo. Un’architettura distribuita del tessuto urbanistico, disperso in una serie di piccoli centri al di fuori delle grandi città. Un’elevatissima percentuale di studenti universitari per abitante rispetto al resto del Paese. La presenza di alcuni poli di eccellenza tecnologica e scientifica come la facoltà di ingegneria, l’IIGB e la Apple Academy di Napoli o gli istituti di Farmacia, Matematica e Intelligenza artificiale dell’Unical.
Tutti questi puntini hanno bisogno di un solo fattore unificante per poter diventare sistema: la più moderna tecnologia di banda larga che consenta l’accesso alla rete ed ai mercati da qualunque luogo. Ed ecco che l’opportunità del Recovery Fund può diventare un moltiplicatore che consenta di passare al mondo in bianco e nero di Totò alla realtà aumentata di Tron.
Descritti i parametri di sistema, le opportunità e la visione del futuro, la parola spetta adesso ai politici. A cui, da bravi tecnocrati, cediamo la parola e l’opera, mantenendo tuttavia una vigile attenzione.