CITTADINI & UTENTI

Viaggio allucinante nel Finimondo

Da un recente articolo di Massimo Fini, sembrerebbe che il Sud sia un posto senza cultura del lavoro, dove non esistono i mesi invernali e tanto meno l’aria condizionata

Leggere le cronache recenti è a volte un appassionante esercizio di antropologia culturale, dal quale emergono modelli intellettuali, comportamentali e narrativi che credevamo estinti da tempo. Quando li si scopre, si ha la sensazione che dovevano provare i primi esploratori della jungla amazzonica, quando, dopo aver girato intorno all’ennesimo dinizia, scoprivano una tribù mai vista prima, che conservava usi, costumi e modi di pensare che nel mondo moderno erano stati abbandonati da tempo: l’idolatria per il Grande Giaguaro; il dipingersi la faccia con il sangue dei nemici; i sacrifici umani; lo ius primae noctis (che non è mai esistito, Alessandro Barbero docet).

In un precedente articolo, abbiamo sottolineato la divertente dissonanza cognitiva scaturita dal contrasto tra il mondo moderno, fatto di business alla velocità del pensiero, dematerializzazione del lavoro, sganciamento della prestazione lavorativa dai concetti di presenza fisica e orario; e la campagna del sindaco Sala da Milano per l’istituzione di gabbie salariali che prevenissero la fuga dei lavoratori meridionali qualificati dal nord Italia, con la conseguente deflazione del mercato immobiliare e del fatturato da spesa familiare corrente e da intrattenimento. Concetti che, come ampiamente dimostrato da quanto sta succedendo in grandi città come San Francisco e Londra, stanno causando la ridistribuzione dei knowledge workers dai grandi centri urbani verso le periferie e le campagne, alla ricerca di una qualità di vita più umana e meno costosa.

Mentre eravamo sul punto di derubricare le dichiarazioni di Sala a sfondone semplice, un rafforzamento di queste idee da romanzo di Charles Dickens viene dalla firma del Fatto Quotidiano Massimo Fini, in un suo recentissimo articolo.

Sorvoliamo sul considerare Umberto Bossi come “l’unico statista italiano degli ultimi trent’anni” (Umberto Bossi? Quello condannato ad otto mesi per finanziamento illecito dei partiti? Quello più volte condannato per vilipendio di cariche e simboli dello Stato? Quello dei centomila bergamaschi armati pronti a fare la rivoluzione contro lo Stato? Quello prescritto – cioè condannato ma non punito per decorrenza dei termini – per aver truffato allo Stato 49 milioni di Euro in rimborsi elettorali? Mah…).

Ci concentriamo invece su alcuni passaggi che vale la pena di riportare integralmente: “Da chi vive al calor bianco del Sud non si può pretendere che si comporti come l’industrialotto brianzolo che, per sua cultura e non certo solo per ragioni climatiche, ‘rusca’ 15 ore al giorno. Di converso chi vive e lavora al Sud non può pretendere lo stesso tenore di vita dell’immaginato industrialotto brianzolo. Tutti gli uomini e le donne, in Italia e fuori, hanno pari dignità, ma vivendo in situazioni economiche, sociali, culturali, climatiche diverse non possono essere trattati, seguendo Aristotele, allo stesso modo.

Devo anche dire che l’eterno piagnisteo meridionale, a più di 150 anni da quella sciagura che è stata l’Unità d’Italia, comincia a dare sui nervi. Io lo vidi bene durante gli scioperi dell’ “autunno caldo” del 1969, cui partecipai. Gli operai milanesi, in maggioranza socialisti, e gli immigrati da tempo dal Sud conducevano la loro sacrosanta lotta con la necessaria durezza ma con dignità, con quelli di più recente immigrazione si assisteva a messinscena del tutto fuori luogo che tiravano al patetico, tipo clochard involontario che tende la mano invece di pretendere diritti”.

Nel mondo di Massimo Fini, ci sembra di capire che il Sud Italia sia un posto senza cultura del lavoro, dove non esistono i mesi invernali e tanto meno l’aria condizionata, tanto che i poveri meridionali non possono ruscare 15 ore al giorno, ma devono necessariamente mettersi in permanenza all’ombra di un banano con il loro mandolino a cantare mollemente ‘O sole mio. Un’immagine forse proveniente dalla formazione sentimentale di chi, sessantottinamente, è cresciuto a pane e Sergio Leone, con l’immancabile messicano col sombrero che invece di lavorare canta La cucaracha tra una siesta e l’altra.

Nel mondo di Massimo Fini, ci sembra di capire che il trattamento da riservare alle persone, cioè la ricompensa per il lavoro svolto, non debba essere legato alla qualità del lavoro stesso, ma debba essere commisurato alle condizioni economiche, sociali, culturali e persino climatiche in cui il lavoratore svolge tale lavoro, secondo una scala di valori che non ci è ben chiara, ma di cui sospettiamo di conoscere i parametri di riferimento.

Nel mondo di Massimo Fini, ci pare di cogliere una vena di lombrosiana differenziazione culturale nel comportamento degli operai in sciopero nel 1969 a seconda della propria provenienza geografica o del grado di maggiore assimilazione in un ambiente più virtuoso. Tuttavia, il richiamo agli scioperi di piazza ci richiama immagini di uomini barbuti in eskimo, dell’agitatore Folagra che parlava a Fantozzi del “collettivo urbano che consenta una cogestione che sia proliferante in senso storico. È roba di cinquantun anni fa, che temporalmente sta nello stesso scaffale mentale di Bobby Solo e delle Signorine Buonasera della TV monocanale in bianco e nero, e non riusciamo a dirne alcunché.

Ciò di cui siamo ragionevolmente certi, invece, è che l’accelerazione esponenziale del nostro vivere, l’abbattimento dei confini di geografia, di spazio e di tempo che consentono a molti di noi di lavorare dove meglio crediamo, come meglio crediamo, assicurando solo il risultato, farà giustizia di questi concetti antiquati. E nel mondo esponenziale dei nostri figli, che già oggi considerano noi knowledge workers come dei Matusalemme che ancora si arrabattano tra un foglio di calcolo e un Power Point, lavorare sarà di sicuro una faccenda ancora diversa.

Stiamo crescendo una generazione per la quale il lavoro sarà verosimilmente plasmato dall’esperienza collettiva che stanno facendo da bambini. Per loro, la memorizzazione di concetti, così importante per il modello di formazione in cui noi siamo cresciuti, non ha alcun valore in un universo dove qualunque forma di conoscenza sta dietro un “Ehi, Google”. Per loro, il lavoro sarà probabilmente simile ad un’infinita partita a Playstation, dove ci si incontra e si collabora in gruppi virtuali e si parla usando un esperanto di lingue diverse, dalla Siberia alle Ande.

Il Finimondo è ormai alla sua fine, e per usare il linguaggio dei nostri ragazzi, secondo noi è fondamentalmente buggato nel suo codice sorgente, càmpera in un tempo passato, e lagga di brutto nei confronti della realtà.

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