
In una delle accezioni ritrovabili sul McGraw-Hill Dictionary of American Idioms and Phrasal Verbs, l’espressione going South – andare a Sud – significa scappare, scomparire, sparire alla vista.
È esattamente ciò che è successo a Milano ed in altre grandi città del Nord, che, in conseguenza della pandemia di coronavirus, hanno visto scomparire in direzione Sud alcune migliaia di studenti e lavoratori meridionali. Questi ultimi, creando anche comprensibile allarme nelle regioni di origine, hanno infatti preso il primo treno o aereo disponibile e sono tornati a casa, continuando a lavorare online e restando al di fuori della zona di contagio primario.
Mentre l’epidemia infuriava, le conseguenze economiche di questo spostamento non sono state notate. Tutte le attività commerciali erano chiuse, e quindi non fatturavano comunque; le università erano vuote di tutti gli studenti; ed anche tanti impieghi opportunistici ed a basso stipendio, come i barman, i camerieri e simili, erano fermi.
Con la ripresa delle attività, tuttavia, si è osservato un fenomeno interessante: lavoratori e studenti meridionali, a grandissima maggioranza, stanno scegliendo di rimanere nelle proprie sedi di partenza e lavorare o studiare online come hanno fatto in questo periodo.
Da un lato, i knowledge workers – spesso la maggioranza dei lavoratori – hanno realizzato il vantaggio di percepire uno stipendio elevato e di spenderlo in zone a costo della vita più basso, senza sopportare le spese della permanenza fisica al Nord. Dall’altro, gli studenti hanno cominciato a rivalutare il valore netto dell’essere fisicamente presenti nelle università settentrionali, e in molti casi si sono iscritti per il nuovo anno accademico a quella più vicino casa. Catturando intelligentemente il momento, diverse università meridionali hanno offerto condizioni di vantaggio in termini di tasse per quanti rientrassero. Il fenomeno è talmente grande ed accelerato, che a partire da Palermo stanno nascendo in tutto il Sud organizzazioni come Southworking, che si propongono di raccogliere i lavoratori e gli studenti di ritorno e di aggregarli in nuovi spazi sociali e funzionali.
La realtà attuale della microeconomia in tante grandi città del Settentrione, su tutte Milano, parla di numeri importanti. Le attività di ristorazione o di svago, attive ad esempio in pausa pranzo o la sera, stanno conoscendo un ridimensionamento importantissimo sia nell’afflusso di clienti – molti erano lavoratori o studenti meridionali – che nel reclutamento di lavoratori occasionali, spesso studenti alla ricerca di un arrotondamento delle proprie finanze. Più forte ancora è l’impatto sul settore immobiliare, dato che la scomparsa di studenti e lavoratori causa un crollo negli affitti, che potenzialmente avrà conseguenze importanti sul valore complessivo del patrimonio urbanistico.
Quanto sta avvenendo è di tale portata, che il sindaco di Milano ha avuto un’uscita tanto fuori dal mondo quanto divertente, invocando l’istituzione di gabbie salariali per i lavoratori del Sud che scegliessero di rimanere in smartworking. Riduzione cioè degli stipendi in relazione al fatto che ora non li spendono più nella città dove essi originano. Una visione che a nostro parere nel digitalizzato mondo moderno è antiquata quanto l’istituzione protezionistica dei dazi, ed è in contrasto con i principi stessi del capitalismo d’impresa, che statuiscono la retribuzione commisurata al valore del lavoro prodotto, e non al luogo dove essa viene poi spesa.
Sperare in un ritorno al business as usual, anche una volta che lo stato emergenziale sia esaurito – e nel momento in cui scriviamo non ci sono certezze in un senso o nell’altro – è pura illusione ed arretratezza culturale, legata ad un mondo di tute blu e di fisicità del lavoro. In città globali come San Francisco il movimento dei knowledge workers tecnologici, che costituiscono la base della popolazione attiva, è molto più massiccio e sta causando riaggiustamenti sociali tali da essere stati oggetto di un recente articolo del Wall Street Journal.
Il virus cinese, come abbiamo più volte detto da queste pagine, al di là della sua tragicità sta rimodellando molti luoghi comuni del nostro vivere e del nostro lavoro. Uno dei luoghi comuni probabilmente da sfatare è che la qualità di vita, così come sbandierato da anni dalla famigerata classifica de Il Sole 24Ore, sia superiore al Nord rispetto al Sud Italia, e che la migrazione interna sia dettata e mantenuta dal desiderio di trovare migliori condizioni di vita.
Quanto sta accadendo dimostra con lampante evidenza che il lavoro, o la speranza di trovarne uno dopo laureati, è la condizione più importante, se non l’unica, che spinge i giovani meridionali a prendere i treni per il Nord. Una volta che condizioni imprevedibili gli hanno permesso di tornare a casa, sono ben contenti di restarci, senza nostalgie per la movida milanese.
E d’altra parte, chi preferirebbe prendere uno spritz a Corso Como, se può sorseggiarlo davanti al mare di Gallipoli?