
Noi italiani veniamo considerati dei furbetti quando si tratta di mettersi in coda. In passato solo pochi esercizi, per lo più pubblici, rendevano necessaria una attesa. A causa del Covid-19 e delle conseguenti regole da seguire a tutela della salute, dover aspettare in fila è diventata purtroppo la norma anche in contesti differenti, come ad esempio per entrare in negozi, stabilimenti balneari, ristoranti. Ho personalmente educato mio figlio piccolo ad attendere con pazienza perché “è necessario”, e come un piccolo lord inglese anche lui ora si incolonna senza più protestare, rendendomi orgogliosa di aver contribuito a scalzare, almeno per le generazioni future, l’idea dell’Italiano indisciplinato che non fa la fila. È arrivato però il momento in cui si sta abusando della pazienza acquisita, perché non sempre il bisogno di fare la fila è dettato dalle necessarie e sacrosante regole per garantire il distanziamento sociale e la tracciabilità dei nominativi dei presenti.
Seguendo le indicazioni presenti da qualche giorno sul sito dell’Atac – che non è l’Associazione Teologica Amici Cristo, come suggerito da Verdone, ma l’azienda del trasporto pubblico di Roma e primo operatore della mobilità urbana in Italia, nonché una delle più grandi realtà di gestione del trasporto pubblico locale in Europa – cerco di avere il tanto sospirato rimborso o una proroga (o, sempre per citare Verdone, grandissimo interprete della romanità, “m’hanno fatto un buono, che vor dì?”), qui definito con il criptico termine “compensazione”. Il mio abbonamento Metrebus in questione (più di 400 euro annue), è rimasto inutilizzato per mesi non solo per l’introduzione del telelavoro, ma soprattutto a causa delle modifiche apportate ai metodi di utilizzo e agli orari dei treni/metro/bus, che rendevano (rendono? O meglio renderebbero?) eccessivamente aleatorio il tempo di spostamento.
Accedendo all’apposita pagina web (Covid 19 – Compensazione abbonamenti), mi viene richiesto di registrarmi al sito della società emittente i titoli. Solitamente ho una reazione irritata alla richiesta di inserimento di dati personali, ma questa volta decido di operare “a cuor leggero” ed inserire immediatamente tutti i dati che mi verranno richiesti, che fra l’altro la società in questione già possiede.
Assecondo il “Clicca qui se non sei registrato”, ed invece di visualizzare un form da riempire con i miei dati mi appare una schermata di benvenuto che mi informa di essere in coda per l’accesso all’area riservata e, quando sarà finalmente il mio turno, avrò 10 minuti per entrare nella pagina richiesta.
Nella mia mente, sviluppatasi negli anni ’80, si sovrappone l’immagine del tunnel di luce presente nei film di fantascienza che uniscono parti lontanissime dell’universo a quella della coda ai bagni delle stazioni di servizio quando è arrivato un attimo prima di me è arrivato un bus di turiste sfinite da ore di viaggio (tutte rigorosamente donne!).
Pensando di dovermi rivolgere anche all’ATAC suggerita da Verdone, per avere nell’attesa un supporto, religioso o blasfemo che sia, decido di cliccare su “più informazioni”. Si apre un video, a cura di una società che fornisce il sistema di gestione code, in cui con voce allegra e mostrando omini e palloncini, mi fa presente che fare acquisti online è come farli nei negozi: bisogna mettersi in coda. Pensando che chi ha editato tale filmino fazioso non abbia mai utilizzato Internet, dato che uno dei vantaggi più apprezzati dell’e-commerce è proprio avere immediata disponibilità dei prodotti, continuo ad ascoltare: il top viene raggiunto quando mi si dice che non posso lamentarmi di dover attendere in linea, poiché contrariamente a quando si sta fila in piedi davanti ad un negozio reale, posso stare comodamente seduta al mio pc e “smaltire qualche pila di scartoffie”, sottintendendo che con un pc non si possa lavorare in maniera proficua. Forse si sono fatti scrivere il testo dal politico che dichiarava “basta smart working, torniamo al lavoro”. Quindi, oltre al danno la beffa: almeno quando si fa la fila nel mondo reale non ti prende in giro nessuno, a meno che tu non abbia 40 anni e stia cercando da ore di farti fare l’autografo da uno youtuber.
Mi unisco così ai 2.843 sventurati utenti in coda e, spaventata dal tono intimidatorio in cui mi si dice che avrò 10 minuti a mia disposizione, cerco di capire quali dati personali tenere a portata di mano per compilare il modulo, dato che ho un’ora per reperirli, ma non è presente tale informazione.
Decido di fare l’italiana furbetta, e provo a registrarmi senza passare dalla pagina dedicata al Covid-19, ma direttamente dalla homepage della società. Trionfante vedo apparire di fronte ai miei occhi il modulo tanto agognato, ma dopo due secondi vengo messa comunque in coda. Riprovo e faccio uno screenshot alla fugace visone, così comprendo di dover reperire solo il codice fiscale. Anche in questo caso il sollievo dura poco, poiché ricevo un messaggio da un’amica in lacrime la quale, giunto il suo momento, non aveva il pdf del documento di identità (unico con fronte/retro) e il sistema le ha restituito una schermata “Server error”, di quelle che fanno inorridire sia i comuni utenti, che non comprendono il significato della sbrodolata di scritte sottostanti, sia gli informatici, che purtroppo la comprendono. Speriamo che l’utente potrà completare la domanda senza dover rifare la coda.
Dato che non ho scartoffie, l’ingegnere (o la rompiscatole) che è in me mi spinge a prendere la calcolatrice ed effettuare più volte una verifica: dividendo le persone in coda per i minuti di attesa, scopro che la “potenza di fuoco”, per usare il gergo politico attuale, è di 40 utenti al minuto circa, cifra un po’ misera per il sito di una azienda con 11 mila dipendenti.
L’esperienza dell’indisponibilità dei server Inps di quest’anno ha fatto passare il messaggio sbagliato. Pur avendo avuto tempo, le aziende non si sono affrettate ad adeguare le proprie infrastrutture informatiche alle necessità attuali. Hanno trovato il modo di mettere in coda gli utenti, salvaguardando l’operatività dei propri sistemi obsoleti, sperando che l’utente non abbia una conoscenza di Internet tale da irritarsi per questo. E ci hanno messo tutti in fila come tante oniriche pecorelle.
Ora sono qui, con tutte le mie tessere in mano (ho pure quella col gruppo sanguigno, non si sa mai), anzi, sul desktop in pdf, perché, a ben guardare, effettuare operazioni online non è proprio come farle dal vivo, e attendo i miei 10 minuti di gloria.
Mi raccomando, non accalcatevi a leggere, mettetevi in fila e tenete sempre in mente l’adesivo presente su molte paline del bus a Roma, recante il Bianconiglio di Alice nel Paese delle Meraviglie.

