
Dato il clima agostano, per una volta ci distacchiamo dai temi più impegnativi per parlare di calcio. O meglio, ce ne distacchiamo apparentemente, dato che il calcio moderno è a tutti gli effetti un’impresa economica e ci offre alcune riflessioni strategiche su quali modelli siano vincenti nel mondo moderno e quali no.
L’eliminazione della Juventus agli ottavi della Champions League contro il modesto Lione è la “battaglia di Gravelinga” del calcio italiano. Una autodefinitasi Invencible Armada, guidata da un famosissimo condottiero straniero, affronta un avversario apparentemente più debole, e lo fa con la sicumera di chi ha già vinto. I soldi spesi, i nomi altisonanti, tutta una macchina mediatica a sostegno, il viatico del non-campionato nazionale di fila vinto, non possono produrre altro come risultato che la vittoria – la quale, come ripetono a Torino, è l’unica cosa che conta. Alla prova dei fatti, invece, passato il confine nazionale, tutto va al contrario di quanto propagandato e la futuribile linea Lione-Torino serve virtualmente a riportare a casa gli italici eroi.
Al contrario, una squadra italiana sulla carta molto meno attrezzata e pubblicizzata, l’Atalanta, si batte come un sol uomo contro gli avversari del momento. I componenti della sua squadra non sono stati allevati nella bambagia, né comprati a suon di milioni sul mercato estero. E vincono, vincono con merito, confermando oltre il confine patrio le eccellenti qualità che hanno mostrato nel campionato nazionale e che solo per una serie di sfortunati eventi non gli hanno permesso di raggiungere il gradino più alto del podio.
Le due squadre di calcio sono espressione dì due ambienti economici e di due culture del lavoro molto diverse. Da un lato abbiamo la grande industria meccanica, fondata sulla produzione di massa e sulla rivendita dei propri prodotti prevalentemente sul mercato interno. Un’industria che da qualche secolo, grazie alle sue precoci cointeressenze politiche e belliche con la dinastia sabauda prima, e con i governi del primo e secondo dopoguerra poi, galleggia come una grande balena bianca nel piccolo mare italiano. Dall’altra, abbiamo una solida, agile e compatta realtà imprenditoriale bergamasca, che in silenzio e con i propri mezzi, lentamente ma caparbiamente, si è ritagliata uno spazio sempre più grande nel mondo, travalicando i confini e imponendosi per la qualità di quello che fa.
Il mondo attuale, iperconnesso ed accelerato dalla rivoluzione digitale e scosso dalle fondamenta dalla pandemia, richiede alle aziende una serie di caratteristiche che determinano la vita o la morte delle stesse: velocità, agilità, decisionismo, fiuto del mercato, adattabilità, solidità culturale, ma capacità di operare al di là delle proprie origini. Un certo tipo di capitalismo assistito, fatto di grandi commesse, di finanziamenti per mantenere I livelli occupazionali, di bassi investimenti sulla qualità del prodotto o del servizio, di risparmio sullo sviluppo del know-how e sull’acquisizione dello stesso dall’estero – magari decotto o sorpassato – ha poche probabilità di reggere alla prova del mercato.
Il “Too Big to Fail” è un concetto che le grandi e recenti crisi finanziarie ci hanno dimostrato essere fallace e pericoloso per la tenuta a lungo termine della struttura capitalistica della nostra società.
Come sistema Paese, dobbiamo ai più presto accettare la realtà e stimolare le grandi imprese a cambiare modo dì operare; e aiutare quelle piccole ad accelerare la loro crescita. Solo in questo modo potremo stare nella Champions League del sistema economico mondiale e non essere relegati a covare una gloriuzza di Lissa come un decadente Impero Austro-Ungarico qualsiasi.