
La pioggia di miliardi (672,5) approvati dal Consiglio d’Europa in via definitiva lo scorso 21 luglio assicura una irrigazione finanziaria europea di 360 miliardi sotto forma di prestiti e 312,5 sotto forma di sovvenzioni. Le due voci del programma stanno sotto una denominazione unica, Next Generation Eu. In effetti lo sforzo messo in campo graverà sulle spalle della nuova generazione europea perché la assunzione di prestiti cesserà al 31 dicembre del 2026.
Tutti i prestiti contratti sui mercati dei capitali potranno però essere ottenuti al solo scopo di far fronte alle conseguenze della crisi COVID-19 ed è un po’ curioso che si tiri in ballo la next generation ancorando la visione alla sola lente di ingrandimento del Covid che riguarda l’attuale generazione, non quella prossima. Ma così sta scritto. E’ vero invece che i soldi messi a disposizione hanno un preciso calendario di rimborsi e un montante di passività spalmati fino al 31 dicembre 2058 e qui sì che la Next Generation c’entra, mentre c’entra poco nell’ assunzione degli impegni giuridici del programma integrato Next Generation che devono essere contratti entro il 2023 (e i relativi pagamenti effettuati entro il 31 dicembre 2026). Questo dice il testo approvato e da quanto occorre partire per passare ai fatti “digitali” del nostro Paese che ora andiamo ad analizzare.
Abbiamo detto che tutto deve essere circoscritto al tema Covid anche se la Next Generation Ue rimodula il nuovo quadro finanziario pluriennale e le sue priorità politiche, alla luce della tabella di marcia di Bratislava e, delle dichiarazioni di Roma e di Sibiu nonché dell’agenda strategica 2019-2024. In questo nuovo quadro finanziario pluriennale (nome in codice QFP) il primo pilastro ha invece un nome che con il Covid c’entra e non c’entra: “Mercato unico, innovazione e agenda digitale”. Insomma, con un po’ di buona volontà è possibile allargare le maglie del Next Generation intrise di Covid e raggiungere obiettivi di più ampio respiro anche perché la pandemia in corso ha dimostrato quanto le risorse digitali siano importanti per le nostre economie e come le reti e la connettività, i dati, l’intelligenza artificiale e il supercalcolo, come pure le competenze digitali di base e avanzate, sostengano le nostre economie e società, rendendo possibile la prosecuzione del lavoro, monitorando la diffusione del virus e accelerando la ricerca di farmaci e vaccini.
Ed è proprio qui che entra in scena la somaritudine (italiana) a cui prestare molta attenzione; la chiamiamo somaritudine perché in gergo scolastico l’ultimo della classe somaro è. Per evitare inesattezze assumiamo per la esplicazione della somaritudine un indice ufficiale, il Desi (indice di digitalizzazione della società e dell’economia) con cui la stessa Commissione Europea monitora il progresso digitale degli Stati membri dal 2014 e che raccoglie prove quantitative derivanti da cinque indicatori tematici.
I capitoli tematici del DESI 2020 sono consultabili all’indirizzo https://ec.europa.eu/digital-single-market/en/desi e dicono che l’Italia si salva solo in termini di preparazione al 5G mentre affonda in tutti gli altri capitoli, a cominciare dal “capitale umano”.
Sarebbe un evento epocale se il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella (o anche il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte ) si presentasse in una diretta tg delle 20 dicendo a chiare lettere che la battaglia in Europa è persa in partenza se non ci schiodiamo dal fondo classifica in cui siamo precipitati e che nessuna nuova ripresa è possibile finchè l’Italia occupa il 25° posto fra gli Stati Ue nell’indice dell’economia e della società (DESI).

Nell’arido linguaggio della pubblicistica europea si scrive che “ rispetto alla media UE, l’Italia registra livelli di competenze digitali di base e avanzate molto bassi”. La traduzione esatta e semplificata di tale frase in google translate è “asini”. Numero di specialisti e laureati nel settore TIC è molto al di sotto della media UE. Modesto utilizzo dei servizi online, compresi i servizi pubblici digitali.
26% di italiani che non usano internet. Imprese italiane in ritardo nell’utilizzo di tecnologie come il cloud e i big data. Commercio elettronico all’ultimo stadio di crescita.
Nel dicembre 2019 il Ministero dello Sviluppo Economico ha presentato (giustamente) la strategia “Italia 2025”, un piano quinquennale per la digitalizzazione e l’innovazione, annunciando un processo di trasformazione strutturale e radicale del Paese. Prima c’è stato il Piano Nazione “Impresa 4.0”, in mezzo il Piano Triennale per l’informatica nella P.A. Più recentemente ( marzo 2020) si è aggiunto anche il Fondo Nazionale Innovazione, che ha una dotazione finanziaria di partenza di 1 miliardo di EUR e opera sulla base di metodologie di Venture Capital per sostenere gli investimenti nelle imprese innovative.
Tutto bene, ma non ci siamo proprio se consideriamo le due sole ipotesi di lettura dei dati: i piani erano sbagliati in partenza oppure, pur essendo giusti, sono stati avviati ed eseguiti con una lentezza tale da non reggere il confronto con tutti gli altri Paesi Ue. Come spiegare altrimenti il fatto che nel 2019 l’Italia ha perso due posizioni ed è scivolata all’ultimo posto nell’UE per quanto riguarda la dimensione del capitale umano? Questa l’impietosa radiografia: solo il 42% delle persone di età compresa tra i 16 e i 74 anni possiede almeno competenze digitali di base (58% nell’UE) ; solo il 22% dispone di competenze digitali superiori a quelle di base (33% nell’UE).
Ecco, ora che la Next Generation Ue si presenta con il volto di 672,5 miliardi di prestiti e finanziamenti da impegnare entro il 2023, sarà il caso di convincerci che Covid-19 significa anche reti, connettività, dati, l’intelligenza artificiale, supercalcolo e competenze digitali di base e avanzate e che il principale nemico del Covid è la somaritudine.