ECONOMIA

I tornanti di Huawei e i tormenti del giovane 5G

Vale 1.540 miliardi di dollari la tecnologia 5G nel mondo e la Cina ha  in cassaforte 46 contratti per il suo sfruttamento in 30 Paesi del mondo, Italia compresa. L’America protesta; auspica almeno una saggia politica di rinvio se non una esclusione a priori del Sol Levante dalla Terra del tramonto ( Occidente) che è in Europa.  Mike Pompeo non fa nomi ma l’obiettivo del Segretario di Stato è quello di mettere il freno a mano innanzitutto a Germania e Italia visto che la Spagna lo ha già tirato.  Un piccolo indizio della decelarazione filo-cinese guadagnata da Pompeo in Europa lo troviamo nel Recovery Fund fresco di approvazione   dove il programma “Europa digitale 2021-2027” prevede investimenti in trasformazione digitale  per  6.761 milioni di euro, 229 volte in meno della posta in gioco complessiva.

La politica del lento-pede imposta all’Europa non è a costo zero. Prima di formalizzare il suo no alla Cina del 5 G, il Regno Unito ha valutato attentamente l’impatto economico derivante dalla scelta: il report commissionato dal DCMS (Department for Digital, Culture, Media & Sport) del Governo britannico stima benefici derivanti dal 5G nell’ordine di 29 miliardi di euro per  il 2020 e di 51 miliardi l’anno per tutti gli anni da qui al  2030: ogni ritardo comporta un taglio dei benefici diretti e indiretti.   Lo studio della società di consulenza Assembly per conto degli operatori tlc britannici prevede per questi ultimi che  una  restrizione della componentistica 5G ai soli producers europei ( Ericsson e Nokya) generi un ritardo di 18 mesi nell’implementazione delle reti (tra quest’anno e il 2022) con  perdite  di circa  6,8 miliardi/anno. Una semplice moltiplicazione consente di calcolare quanto costa il ritardo e la richiesta in Europa. 

L’Italia non è favorevole ad accogliere le indicazioni del Segretario di Stato Mike Pompeo, basta osservare la volontà di Leonardo di sostituire il direttore delle relazioni istituzionali Paolo Messa con Filippo Maria  Grasso; l’Italia non è favorevole  perché con un solo articolo  del decreto Semplificazione -l’articolo 38-  pubblicato in Gazzetta e dunque legge dello Stato,  ha cancellato le ordinanze di 385 sindaci per fermare le reti mobili di quinta generazione e archiviato la protesta di  580 comuni contrari alle antenne 5G.  Dice così l’articolo: “I comuni non possono introdurre limitazioni alla localizzazione in aree generalizzate del territorio di stazioni radio base per reti di comunicazioni elettroniche di qualsiasi tipologia e, in ogni caso,  incidere, anche in via indiretta o mediante provvedimenti contingibili e urgenti, sui limiti di esposizione a campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici, sui valori di attenzione e sugli obiettivi di qualità, riservati allo Stato”.

Il premier Conte e il ministro  Luigi di Maio hanno così mano libera e restano interlocutori unici se non esclusivi nella partita del 5G,  dall’alto del  vantaggio competitivo dell’Italia che ha avviato i lavori sulla rete in oltre 2.600 comuni e completato l’infrastruttura in 600.  Lo chiamiamo “vantaggio competitivo” perché di questo si tratta: l’indice DESI, prodotto annualmente dalla Commissione europea, nella sesta release  pubblicata poche settimane fa, ci punisce con un  24° posto in Europa per digitalizzazione dell’economia e della società, ma ci premia con il  2° posto proprio in relazione allo stato di avanzamento della diffusione del 5G. In particolare l’indice DESI relativo alla “5G readiness” riconosce  in tutti gli ambiti  all’Italia  un ruolo di apripista (sarebbe  molto interessante  conoscere gli esiti di una analisi approfondita delle sperimentazioni pre-commerciali  in corso  a Roma, Torino, Napoli e Genova e soprattutto redigere una valutazione dei risultati ottenuti nelle 5 città individuate nel  lontano 2017 come campo di sperimentazione: Milano, Prato, L’Aquila, Bari e Matera).

Questo vantaggio dell’Italia è stato ottenuto attraverso un mix di misure legislative e politiche ex post e politiche commerciali ex ante che hanno consentito l’insediamento di un altissimo grado di internazionalizzazione nel settore tlc, con americani e francesi tra i principali azionisti dell’ex incumbent Tim, britannici alla guida di Vodafone, cinesi (prima con e poi senza russi) in Wind Tre, svizzeri in Fastweb, francesi in Iliad e americani in Linkem. Il meticciato tecnologico che caratterizza il “made in Italy” del 5G renderà insolubile il groviglio delle tematiche tecniche relative alla sicurezza ed alle misure che possono essere assunte per mitigare i rischi di attacco e furto garantendo l’assenza di quelle “porte sul retro” tramite le  quali è possibile accedere da remoto ai dati se create in origine dai produttori di hardware e software. Huawey è il campione mondiale di tale pratica ( sotto la regia di China Telecom)  -questo  il pensiero del Segretario di Stato americano- anche il grande pubblico non ha dimenticato il  caso Snowden  in cui un ex agente della Cia  documentò le attività di pressione da parte delle agenzie di intelligence americane affinché i produttori di hardware e software installassero delle porte di accesso che consentivano alle stesse agenzie di bypassare i normali controlli di sicurezza dei sistemi ed accedere direttamente ai dati protetti.

La partita mondiale del 5G ha molti fronti di combattimento e uno di questi è il fronte del lento-pede. I rallentamenti (imposti o accolti) della politica mandano in fumo i piani di investimento se non altro perché alterano i rientri, costringono a riprogettare e rifinanziare gli obiettivi. Dietro ogni cartellino rosso fischiato contro il player accusato di fuorigioco si agitano vantaggi competitivi colossali.   

La parola d’ordine del mercato è “correre”. Quello della politica è “stare al passo”. Quella della geo-politica è “ o di qua o di la”. Tanto per citare un Paese che il 5 G lo sta inseguendo (assieme alla Cina), la Russia di Vladimir Putin ha firmato giovedì un decreto che fissa gli obiettivi al 2030 della trasformazione digitale mirando a raggiungere la “maturità digitale” per settori chiave dell’economia e della società e  portando al 97% la percentuale di famiglie con accesso alla rete 5G.  

Huawei è diventato il simbolo dell’avanzata. Una corsa alla supremazia tecnologica che gli Stati Uniti hanno deciso di contrastare. Intorno a Huawei c’è una spirale ideologica che sta spingendo Usa-Cina e il mondo in una Nuova Guerra fredda. Xi Jinping ha aperto troppi fronti: Hong Kong, il Mar cinese meridionale, Taiwan, il confine himalayano con India e Bhutan, i diritti umani e civili soppressi e infine  il Covid-19.

Entro il 1º ottobre 2020 gli Stati membri dell’Ue, in cooperazione con la Commissione, dovranno esprimersi sulle misure fin qui adottate in ambito 5G e valutare se vi sia bisogno di ulteriori interventi. Nel mirino finirà sempre Huawei. Come è appena accaduto in Spagna dove Vodafone ha deciso di mettere in pausa la diffusione della parte della propria rete che si affida ad attrezzature Huawei, in attesa che la situazione tra il colosso cinese e gli Stati Uniti divenga più chiara. 

L’Italia resiste e insiste, basta osservare la volontà di Leonardo di sostituire il direttore delle relazioni istituzionali Paolo Messa, ex direttore del Centro Studi Americani con Filippo Maria Grasso, primo italiano arrivato al vertice di una società statale cinese (China National Tire&Rubber Corporation).

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