
Sono tornati e finalmente da questa finestra, che si protende nel cortile dell’ospedale, vedo di nuovo gente. Di fianco c’è l’ambulatorio per le vaccinazioni pediatriche, per cui si tratta di bambini impauriti e di genitori che promettono, come ai miei tempi, siringhe senz’ago e giocattoli in premio. È vita, questa, pur se condita da lacrime che più innocenti non si può.
Qualcuno viene anche da me, per appuntamento o per caso, perché si trovava a passare. Chi per chiedere notizie che permettano di alleviare il disagio, chi per sognare un nuovo lavoro o una gita in mare sulla propria barca. I primi sono una moltitudine, gli ultimi un’eccezione che non irrita perché anche da quel lusso discendono opportunità per altri.
Sono giorni, ormai, che l’ambulatorio è ripreso ed è un tempo già sufficiente per catalogare gli approcci al camice bianco che se per alcuni è distintivo di eroismo, per altri è ancora diffidenza e timore.
C’è chi entra ed arretra la sedia, dove deve accomodarsi, ben oltre la distanza di sicurezza già rimarcata da una striscia rosso sangue appiccicata per terra. C’è chi invece la stessa sedia l’avvicina, pensando forse che sia meglio rischiare un contatto con il virus piuttosto che morire sordo ed inappagato.
Qualcuno stende la mano e poi subito la ritrae, memore dei consigli assorbiti nei mesi scorsi e c’è chi invece la lascia sospesa nell’aria e quasi si offende se non ricambi il gesto. Magari è uno di quelli su cui stanno sperimentando il vaccino ed ha maggiori certezze di te.
Ma i migliori, quelli ligi al dovere, sono coloro che porgono il gomito o le braccia più o meno muscolose. Di questi tempi, poi, con le mezze maniche trionfanti, è tutto un fiorire di tatuaggi rimasti nell’ombra delle maglie della salute per troppo tempo. Ma qui, da questa parte della scrivania, i dubbi aumentano, non sai se sfiorare, colpire o allontanare. Dare di gomito alla Madonna o a qualche santo potentissimo effigiato in maniera più realistica di una pala d’altare, fa troppo confidenza intima che, purtroppo, non hai.
Incrociare l’omero con simboli calcistici di squadre dai troppi scudetti fa orticaria immediata. Trovare, invece, la data di fondazione della tua squadra del cuore, impressa a fuoco sulla pelle altrui, come se fosse uno spartiacque epocale, ti dà qualche brivido cronologico, se consideri che son quasi 100 anni e quello era il quarto anno della E.F. Le scritte in latino poi… Che fai? Le picchietti con l’ulna con il rischio di farle cadere sui peli rasati di chi a stento conosce l’italiano? Non esiste, l’Italia è già un paese di rovine che il mondo ci invidia, non lasciamo che vadano in crisi anche i tatuatori. Uno sguardo critico alla concordanza tra soggetto e verbo non guasta, però, e spesso, più del saluto, ci vuole una risata.
I nomi dei figli, poi, quelli son sacri, su di loro non si può, nemmeno con un fiore, figuriamoci con un capitello radiale. Ma forse faccio confusione tra un’antica casa di prodotti in scatola sponsorizzata niente di meno che da gatto Silvestro e le donne, Rosa o Margherita o Viola che siano. Ma esiste un nome da uomo che sappia di fiori? Devo scrutare meglio i bicipiti nei giorni a venire. Tornando serio, se si può, non è lecito concepire un colpo a nomi così importanti. Non usa, fa male a chi lo dà, figuriamoci a chi vede la propria Samantha o il proprio Kevin urtati come in tram… Non sta bene. Meglio un sorriso, anche qui.
L’apoteosi si raggiunge sui simboli celtici, le asce bipenni, le rune, gli elmi che taluni esibiscono come tracce di un passato remoto di cui essere orgogliosi, anche se sono mediterranei, di sponda incerta, da almeno cento generazioni. Lì ci dài dentro con soddisfazione, colpisci con tutta la forza che hai ed immagini strilloni che pubblicizzano giornali inesistenti: “Bicipite bolso abbatte alabarda” oppure “Deltoide cadente deride Odino”… Non vedranno mai la luce, titoli così, al massimo potrebbero essere utili a qualche logopedista in cerca di strade diverse per rafforzare labiali o dentali.
Ma fin qui è facile, troppo facile. Come fai a relazionarti, invece, con reconditi simboli maori o incerte proiezioni geometriche, momenti di estasi condivisa tra tatuatori fumati e pelli incolte? Ci si inchina, ammesso che un gomito possa farlo, magari come omaggio postumo agli all blacks? Ci si ispira per infondere nuovo caos alla scrivania? Si passa oltre, come in una terzina dantesca incompresa e si spera che questo inopportuno che continua a parlare, mentre colloca la Nuova Zelanda di fronte all’Olanda, vada via presto e lasci entrare la florida matrona che hai intravisto in fila, accomodata sulle sedie distanziate che ci sono in sala d’attesa, anch’ella cosparsa di simboli scelti a caso tra il sacro ed il profano, sobria nelle vesti, improbabile negli orpelli. Ma una volta bandito il baciamano, sarà galante baciare la paletta omerale o il rischio del contagio dovesse aumentare e gli equivoci moltiplicarsi? Astieniti, manda un bacio con il soffio delle labbra a sospingerlo, se è il caso, come usava tra innamorati che si davano il voi.
Meno male che il tocco di piede ha avuto vita breve, almeno tra noi candidati all’anzianità. Troppi i rischi e gli squilibri per il femore aggredito dall’osteoporosi. In questi tempi di abitini intriganti e bermuda osceni, ci sarebbero toccati incroci di tibie, manco fossimo affiliati alla filibusta, magari ricoperte da orridi serpenti o da spirali di fuoco che con questo caldo, ci siano evitate.
Quando tornerà la stretta di mano? E quando saranno ancora di moda quei baci sulla guancia, pure tra uomini, che individuavano l’italiano medio nell’algido modo anglosassone? Non manca il contatto, non c’è maggior complicità in un abbraccio, ma trionfa l’identità, il sentirsi noi, per come siamo. Non mi va più il dover dar di gomito o di spalla. Lo si fa tra ubriachi, ai concerti o per enfatizzare inutilmente una cosa che hai già visto e compreso da solo.
Ripuliamo, al più presto, il salutarsi dalla paura. Facciamolo con coraggio e magari, senza offendersi, mettendo subito mano al disinfettante. Ma basta con questi palpeggiamenti di bicipiti ornati come chiese barocche. Basta con questi gomiti aguzzi come punte di lancia. La mano tesa, come mi hanno insegnato, sta ancora lì a dire “non ho armi, né difese”.