
La preoccupazione sempre più cupa che in autunno in Italia esploderà una disoccupazione dilagante senza precedenti a memoria d’uomo, per certi versi più difficile psicologicamente di quella del secondo dopoguerra, presto si concretizzerà; nonostante gli sforzi in cui il governo si è impegnato, nonostante la valanga di miliardi “promessi” con tutti i perfezionamenti, la velocizzazione dei pagamenti e la semplificazione della burocrazia, l’impatto economico si annuncia devastante.
All’inizio del 1900 col crescere delle tensioni internazionali crebbe l’idea che, come poi accadde, una intera generazione di giovani avrebbe pagato un prezzo altissimo per quella crisi: vennero definiti “i ragazzi del “99” per indicare quei giovani chiamati al fronte che si immolarono nella prima guerra mondiale il cui apporto si rivelò fondamentale per gli esiti della guerra: tantissimi i soldati morti al fronte, i reduci mutilati e le vedove con figli in patria.
Oggi si comincia a parlare della “generazione coronavirus” indicando quei giovani che saranno chiamati a pagare il prezzo più alto di questa crisi. A poco serve tingersi i capelli di verde, andare in giro con jeans strappati o avere accesso a molte sostanze stupefacenti ormai diventate così frequenti nella generazione under 20: questi ragazzi si sentono potenti, così diversi dai loro genitori quarantenni e cinquantenni ed immuni dallo tsunami economico che si sta abbattendo sulla nostra povera Italia. La prospettiva esistenziale che gli si porrà davanti è quella di un Paese, un mondo, economicamente devastato dal disastro pandemico che ha raso al suolo intere filiere di attività produttive facendo emergere il modello vincente della Cina, peggior incubo dell’Occidente con l’eloquente esempio di Hong Kong facendo intravedere l’epilogo qualora la Cina dovesse assorbire realtà di culture occidentali. Allora sì che la gran parte della popolazione diventerebbe uguale, allora sì che si realizzerebbe una uguaglianza senza precedenti nel mondo occidentale, orrenda come la loro in cui gli uguali non contano niente: non conta ciò che pensano e addirittura neanche la loro vita. Occorrerebbe iniziare a preparare questi giovani ad affrontare questa pesante realtà. Realtà: è questa la parola magica. Sarebbe auspicabile che il centro della protesta giovanile fosse incentrato sulla programmazione di leggi e manovre economiche volte ad intraprendere azioni nuove e a migliorare il futuro che li aspetta; devono capire che stanno ulteriormente mettendo sulle loro spalle un debito infinito che costerà manovre lacrime sangue per almeno un ventennio. Dovrebbero provare un’ansia positiva che li faccia entrare nella reale dimensione in cui, nel volgere di pochi mesi saranno immersi. Questa “generazione coronavirus” deve capire che cosa li sta’ aspettando e non farsi distrarre da una politica cialtrona e un giornalismo fatto da puttane dell’Auditel.
Un’immagine circola incontenibile da qualche giorno su tutti i social e con la sua democratica viralità dà un segnale di speranza per una rinnovata presa di coscienza e di distanza dalla pecoraggine dilagante. La foto ritrae delle calciatrici prima della partita che si inginocchiano contro il razzismo dopo l’omicidio dell’afroamericano Floyd intonando l’inno nazionale, gesto ormai divenuto l’emblema delle proteste “Black Live Matter” e fra queste una calciatrice che, senza mettersi in ginocchio, mostra, a un tempo, l’adesione ad un evento di ricordo che evidentemente rispetta, dall’altro non si piega ad interpretare una realtà che le viene proposta da un mainstream mediatico e si ribella all’isteria anti-razzista. In questa immagine ci sono i germi della speranza per la “generazione coronavirus” che non dovrà farsi ingannare dalle promesse propagandistiche di questa classe politica e da una pilotata cronaca giornalistica, cloaca massima del passatismo e dovrà preoccuparsi del suo presente e del suo imminente futuro.