
Quando c’è da guardare ai soggetti deboli, spesso ci si dimentica della fascia dei giovani professionisti, siano essi in corso di praticantato o anche nei primi anni di esercizio di attività. Purtroppo, la situazione non ha mai trovato un vivo interesse da parte dei media e ancor meno della classe politica. Molte delle annunciate e realizzate riforme nel nostro Paese hanno lasciato questa categoria orfana di tutele effettive. Ad esempio, per quanto i regimi di vantaggio (regime dei minimi prima, regime forfetario poi) siano stati un timido tentativo per promuovere l’avvio di un’attività libero-professionale a basso costo, a conti fatti ci si è trovati con un’ampia fetta dei giovani lavoratori autonomi costretti ad essere dei veri e propri “dipendenti a Partita IVA” per conto di qualche realtà più strutturata.
Infatti, è alcuni studi professionali o società di consulenza gestiscono i rapporti secondo una struttura ricorrente:
- onere di aprire a proprie spese una propria partita IVA dopo un periodo di prova, al superamento di un esame di abilitazione professionale o per ricevere compensi che vadano oltre il mero rimborso delle spese;
- compensi irrisori o limitati, su cadenza mensile e non relazionati ad un incarico;
- orari di lavoro “decisi dall’alto”, con tanto di presenza fissa e dover lavorare da casa;
- mansioni non coerenti con l’attività professionale e lo svolgimento di incarichi, spesso assegnate per “sopperire” alla mancanza di staff organico.
Con buona pace delle tutele in astratto, il sostanziale squilibrio è irreparabile ed è destinato ad intrappolare per anni all’interno di un circuito che promette un allettante futuro ma non garantisce alcun presente.
A questo punto, il consiglio che si può dare al giovane che incappa in queste maglie è elementare (ma spesso non semplice da applicare): fuggi.
Il rapporto, scremato dalle promesse di guadagni futuri e incerti, occasioni di gavetta e visibilità, è nato patologico e non può essere riparato. Tant’è che queste realtà conseguono un significativo ricambio di persone senza essere mai degli incubatori di talenti.
Adesso, l’occasione dell’indennità da COVID-19 erogata dall’INPS ha dato un impulso per tornare a parlare di questo problema. Su alcuni social network (Facebook e LinkedIn), infatti, ci sono state più segnalazioni circa una pratica diffusa di “tagliare” il compenso da corrispondere ai giovani professionisti di cui sopra per l’esatto ammontare dell’importo di quei famosi 600 euro mensili.
Certo, possiamo guardare il dito e non la luna. E affermare dunque che lo studio o la società abbiano incontrato dei problemi collegati al Coronavirus e siano impossibilitati a corrispondere alcun “giusto compenso”.
Eppure, quel “giusto compenso” non esisteva da prima né mai sarebbe esistito.
Guardando la luna, invece sulla faccia visibile vediamo un assordante silenzio di tutele, “buone prassi” e denunce sporadicamente interrotto da qualche testimonianza che il più delle volte ha il tono amaro della rassegnazione. Per trovare la soluzione, in una fusion dell’Orlando Furioso e Pink Floyd, forse occorre esplorare soprattutto la faccia nascosta della luna iniziando prima di tutto a far emergere e contrastare queste cattive pratiche diffuse, con la collaborazione degli Ordini Professionali e delle istituzioni.