CITTADINI & UTENTI

Quelli che… la distanza è zero

La nostra libertà, nell'era del COVID, si è trasformata in un’ansia rispetto a quante persone incontreremo e a quale distanza

Una vecchia canzone di Renzo Arbore si intitolava ‘’Meno siamo meglio stiamo’’.

Oggi questo titolo sembra un pensiero precostituito o quasi un desiderio, ogni volta che dobbiamo uscire di casa, indossiamo la mascherina e ci accingiamo ad andare al supermercato. Così la nostra libertà, nell’era del COVID, si è trasformata in un’ansia rispetto a quante persone incontreremo, a quale distanza, se lo scaffale che ci interessa sarà occupato e, dopo aver fatto la fila per entrare, ci dovremo preoccupare di farla anche per ogni singolo prodotto che dovremo comprare.

Nel nuovo schema di vita ritroviamo la nostra nuova libertà solo rientrando in casa, dove le abitudini sono rimaste più vicine a prima che tutto ciò ci travolgesse, lasciando fuori dalla porta tutti gli elementi tangibili e non, dai vestiti ai pensieri, che riguardano il mondo esterno che ancora oggi facciamo fatica a capire e soprattutto ad accettare come innestando in noi un vaccino mentale che quell’ambiente esteriore non esista o debba finire a breve, quando dentro di noi vige la consapevolezza che non terminerà rapidamente e che cambierà per molto le nostre vite.

In questo momento siamo tutti sotto un nuovo tipo di shock, che sta violentando il senso di comunità che fino a febbraio 2020 era la nostra insalatiera sociale, dove componevamo ingredienti proprietari con le emozioni esterne donateci dagli altri e le nostre case erano i punti di compensazione per metabolizzare e consolidare quei sapori e quegli odori che oggi possiamo solo surrogare con uno schermo e no, non è la stessa cosa.

In questo sconvolgimento c’è una particolare categoria di nostri concittadini che nell’osmosi con la società esterna aveva innescato il suo percorso di recupero e di rigenerazione di se stesso, che non aveva e non ha una casa dove ieri poteva rinforzare la sua socialità ed oggi riprendersi quella libertà limitata dalle nuove regole esterne, perché la libertà l’ha persa per errori commessi e vive oggi in una cella di un carcere dove non ci sono ne familiari ne congiunti di sorta.

Con l’arrivo del virus il nostro sistema carcerario ha sin dal principio ricevuto un duro colpo alla sua stabilità sociale, non solo nelle realtà già piegate dai problemi noti ma anche laddove si denotava la migliore pratica nella riabilitazione del detenuto.

La necessità esogena di mettere primis il diritto alla salute, pur mantenendo il mandato costituzionale della pena come mezzo di educazione, ha portato a dover gestire una serie di contraddizioni e difficoltà.

L’istituto penitenziario tipico, nel quale si professava l’inclusione del detenuto nelle diverse attività sociali dell’ambiente esterno circostante, è stato sin da subito isolato e chiuso alla comunità laddove prima vi erano flussi continui per le attività esterne e per le visite dei familiari.

Si può intuire come il diverso modo di vivere abbia generato ansie maggiori e ben diverse da chi oggi può vivere nella propria abitazione e anche in questo caso un grande plauso alla polizia penitenziaria, agli staff sanitari ed ai dirigenti degli istituti per aver affrontato tali tensioni e paure anche per loro stessi, senza un canovaccio di fronte ad una pandemia imprevedibile ma, diversamente da altri, anche alle prese con un ambiente già delicato nella sua natura.

AI detenuti che prima uscivano per studiare o lavorare è stato necessario comunicare loro che il percorso di crescita doveva fermarsi per un tempo indefinito e questo ha avuto un grande impatto emotivo, in aggiunta il blocco ai permessi premio, di semi libertà e a non poter incontrare più i loro familiari.

Immaginiamo la difficoltà di tutto ciò in un momento di impreparazione generale e senza le puntuali competenze scientifiche da parte di tutto il personale sia medico che non, come si sia potuto generare il caos nelle carceri italiane che grazie alla bravura di dirigenti e la calma della polizia penitenziaria non ha causato tragedie.

Il problema principale è stato caratterizzato dalla mancanza degli spazi, laddove spesso abbiamo più detenuti di quanti consentiti dalla capienza del carcere stesso, spazi che non solo non consentono il distanziamento sociale ma non avevano nessun margine alla gestione dell’isolamento di ipotetici contagiati, ritrovandosi nel paradosso che chi è stato punito per non aver rispettato la legge non gli veniva permesso il rispetto delle regole emanate dalle stesse istituzioni.

L’essere in meno per stare meglio, in questa situazione, è parsa l’unica via per gestire i positivi e rispettare le distanze sociali e cosi facendo ci si è trovati costretti alle dismissioni controllate dei detenuti.

Cosi facendo si è riusciti a gestire gli asintomatici appena arrestati, oltre ai positivi già in isolamento, grazie ai nuovi spazi riservati per la quarantena è stato possibile affrontare le difficoltà nelle difficoltà, come nel caso di mamme positive non solo si è dovuto separare la donna dalle altre detenute ma anche la mamma dal proprio figlio.

Le rivolte iniziali non sono state un fattore positivo ma hanno avuto il merito di una presa di coscienza da parte del sistema paese che all’inizio, travolto dal problema COVID, non aveva preso coscienza della potenzialità dei carceri italiani come vere bombe sanitarie che possono avere un impatto dannoso sulla comunità esterna che tanto si lamenta per esser in casa propria e forse ha superficialmente giudicato le proteste iniziali come chissà quale disegno voluto da potenti organizzazioni criminali, mentre era solamente un urlo disperato da chi voleva fosse difesa la propria salute.

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