
Perché no? Un’app gratuita, da installare sul telefono, dal nome invitante e promettente come “Immuni”, la panacea per il coronavirus, il piccolo passo da fare per l’uomo per tornare alla vita normale, quella di prima.
In queste settimane sono state moltissime le discussioni, gli articoli, i dubbi, le omissioni, le spiegazioni contraddittorie, insomma, anche lo strumento informatico ha rapidamente scalato le classifiche per poter entrare a pieno titolo nel calderone dei pasticci italici dell’epoca pandemica, insieme alle mascherine, i respiratori, i DPCM e i congiunti.
Non vorremmo tornare adesso su punti già ben spiegati in altri articoli, ribadendo le giuste preoccupazioni di chi finora ha messo in evidenza le criticità di questo progetto, a partire dall’opacità nel processo di selezione dell’app, la mancanza di chiarezza sulle modalità di gestione dei dati e del funzionamento, delle dichiarazioni ritrattate e di quelle mai trattate, di tutti i possibili timori relativi all’effettiva tutela della privacy e della sicurezza delle informazioni sensibili.
A proposito: mentre da noi ancora vigono barriere per accedere agli atti amministrativi, e gli innumerevoli esperti hanno dovuto firmare un accordo di riservatezza sul processo di scelta dell’app, nel Regno Unito è già a disposizione il codice sorgente, consentendo così a esperti e curiosi di capire esattamente come funziona, come vengono gestiti i dati, e a contribuire probabilmente ad un suo continuo miglioramento a beneficio di tutti.
Ma una domanda che arriva probabilmente ancora prima di tutte le altre, la madre di tutte le domande, dovrebbe essere: a che serve davvero l’app “Immuni”?
Tutti nel mondo si stanno impegnando per risolvere con qualche riga di codice ben piazzata un problema al momento ancora senza soluzione: come uscire dalla pandemia. E sulla scia di questo sogno collettivo, ogni nazione si è mossa, seguendo modalità tra loro anche differenti, ma che per la maggior parte degli Stati si sta consolidando verso una soluzione di automatizzazione del ‘contact tracing’ o “tracciamento dei contatti”.
Una direzione forse anche un po’ obbligata dalla decisione di Apple e Google, che hanno concordato una soluzione tecnica per la realizzazione di questo tracciamento, che -per riflettere meglio di cosa si tratti- è stato rinominato in ‘exposure notification’, ovvero sistema per la notifica dell’esposizione, e non più ‘contact tracing’. Cosa fare se non si adotta la soluzione dei colossi mondiali? Semplice: con l’inattività del cellulare, salvo accorgimenti da realizzare ad hoc, il bluetooth dopo un po’ si spegnerà senza più rilevare i contatti…
Come già spiegato da molti in questo periodo, si tratta di un sistema per avvisare di un potenziale “allarme”, che potrebbe essere notificato qualora tra i segnali bluetooth dei cellulari delle persone con cui siamo entrati in contatto, registrati in modo anonimo dall’applicativo, dovesse emergere che qualcuna di queste ha contratto il virus. Fin qui tutto pare filare liscio, perché no dunque?
Il primo snodo è proprio l’approccio di utilizzare un segnale trasmesso nell’etere per rilevare una contiguità fisica: cosa si può qualificare come reale contatto, e quindi è corretto che venga tracciato? Come detto, l’app può contare solo sul segnale bluetooth. Creato per connettere cuffie, microfoni, viva voce e altri accessori senza fili, con il proprio telefonino, dovrebbe diventare quindi lo strumento utile a misurare l’esposizione al contagio. Gli inventori del bluetooth però esprimono i loro dubbi sul fatto che la loro creatura possa essere efficace in questo compito: il segnale radio è condizionato da tutta una serie di elementi che non sono solamente la distanza tra i due dispositivi, ma anche l’orientamento, il posizionamento, le riflessioni o l’attenuazione del segnale sulle superfici esistenti, in base alla loro forma e natura. Come farebbe un’app a risolvere il problema e a segnalare correttamente che il contatto registrato si è effettivamente verificato?
Ma non solo: l’app non può sapere se indossiamo o meno una mascherina, una visiera, se siamo sparati fisicamente del nostro potenziale contatto da una barriera fisica, come un vetro, una superficie isolante, un muro, o altro ancora: il contatto che verrebbe registrato quindi che valore avrebbe senza una sua valutazione coerente con le reali condizioni in cui si verifica?
Se a distanza di giorni l’app arrivasse a far “scattare l’allarme”, cosa significherebbe realmente?
A dire il vero, a causa della significativa presenza di falsi allarmi connaturata ai segnali bluetooth, dall’esperienza di Singapore arriva un altro tipo di alert. Un responsabile dell’ente governativo che ha seguito lo sviluppo di un’app analoga, già da tempo in funzione nella città-stato, lascia in un suo post un chiaro monito: “l’esperienza del tracciamento contatti di Singapore suggerisce che questo dovrebbe rimanere un processo gestito dall’uomo”.
Perché, in effetti, non si deve tener conto solamente dei ‘falsi allarmi’ derivanti da presunti contatti con infetti che in realtà contatti non erano, ma vi sono anche i “falsi negativi”, come per esempio -tra i tanti possibili- i contatti non rilevati certo dal bluetooth, ma ben più insidiosi, con le superfici infette a cui il virus era rimasto adeso. Mancate rilevazioni che possono illudere sullo stato di “Immunità”, e sui conseguenti comportamenti meno ispirati alla prudenza.
Andando alla ricerca di riscontri, a livello mondiale, non si trovano tracce di sperimentazioni analoghe, dati utili, statistiche sugli errori, sui falsi positivi e negativi, sui possibili usi fraudolenti o addirittura nocivi, e in conclusione sulla reale efficacia di questo approccio ‘informatico’ come arma di difesa dalla diffusione del virus. Anzi, si trovano informazioni contrarie: la Nuova Zelanda, sicuramente soddisfatta degli ottimi risultati raggiunti in termini di contenimento, sta per abbandonare l’idea. Alcuni ricercatori e accademici americani esprimono concreta preoccupazione sull’entusiasmo di chi immagina queste soluzioni tecnologiche come centrali per il controllo dell’infezione, proprio per la sua connaturata insicurezza e imprecisione, rilevando come “ad oggi nessuno ha dimostrato che è possibile farlo in modo affidabile nonostante numerosi tentativi in corso”. Identico concetto espresso anche da esperti europei, che evidenziano come addirittura questo modello di rilevazione potrebbe scatenare possibili utilizzi dannosi, creando deliberatamente scenari di contagi non reali, impossibili da verificare.
Tralasciamo qui altre considerazioni non meno importanti, già ampiamente espresse da molti, quali il fatto che le fasce più vulnerabili al virus, ovvero gli anziani, hanno la più bassa propensione all’uso di strumenti informatici, specie di smartphone e app, e altre ragioni ancora meritevoli comunque di adeguato approfondimento. Andiamo oltre.
Quando ‘scatta l’allarme’ cosa succede? Beh, non si sa. In audizione alla Camera il commissario all’emergenza Arcuri rivela che “una volta effettuato l’alert le funzioni della app si interromperanno. Al momento non è prevista alcuna relazione tra la app e il sistema sanitario nazionale successiva al suddetto alert“. Tamponi? Test sierologici? Contatto medico? Al momento non è dato sapere: parrebbe nulla di tutto ciò.
E’ come l’allarme di casa quando partiamo per le vacanze, che inesorabilmente comincia a squillare insistentemente come se fosse sotto l’assedio di carovane di balordi appostati da tempo in attesa del nostro allontanamento. In realtà, di solito squilla per il gatto di passaggio, il piccione che va a disturbare il sensore, la batteria che si sta esaurendo, la vibrazione di un tuono durante il temporale…
Quindi, al momento, pare che saremo liberi di scegliere se rientrare a casa per un ulteriore isolamento, con l’amletico dubbio sul fatto che probabilmente non è accaduto nulla, oppure di premere il pulsante “off” per non essere più disturbati dall’alert…