SALUTETECNOLOGIA

AAA Cavie umane cercasi

È accettabile inoculare il coronavirus su esseri umani per poi sperimentare il vaccino? Intervista alla bioeticista Viviana Meschesi

Su Nature si è recentemente parlato di volontari umani per testare un nuovo vaccino, che si sottoporrebbero volontariamente al contagio da SARS-CoV-2 e all’inoculo di un vaccino altamente sperimentale per saggiarne gli effetti.

Cresce l’attenzione verso questo fenomeno che nasce dal basso: più di 1.500 persone hanno espresso la loro intenzione di partecipare a questo controverso progetto, nato intorno al sito 1Day Sooner. Secondo l’articolo pubblicato, l’idea sta riscuotendo successo anche tra i politici statunitensi. Recentemente 35 deputati del Congresso USA hanno richiesto l’autorizzazione di questo tipo di studi scientifici riguardo al COVID-19.

Dietro 1Day Sooner, troviamo tra gli altri Josh Morrison, il direttore esecutivo di waitlistzero, un’associazione che sostiene la donazione di organi, nella fattispecie il trapianto di rene. Morrison ha dichiarato a Nature:

“Il nostro obiettivo è riuscire a reclutare tutti quelli che sono disposti a offrirsi volontari e pre-qualificarli come desiderosi di partecipare agli studi che verranno lanciati. Contemporaneamente, riteniamo che se la voce delle persone interessate a partecipare ai challenge trials verrà ascoltata, le decisioni di salute pubblica riguardo questo tipo di studi saranno prese in maniera più informata”.

Il dibattito oltreoceano impazza, Nature riporta un’intervista a Nir Eyal, bioeticista alla Rutgers University in New Jersey, che ha pubblicato su Journal of Infectious Diseases un lavoro dove sostiene la necessità di questo tipo di studi perché sarebbero gli unici (secondo gli autori) in grado di arrivare a produrre un vaccino in tempi utili.

Gruppi eterogenei di cittadini, politici e scienziati sostengono questo metodo che, visto da questo lato dell’Oceano, risulta quantomeno dubbio.

Confusi tra il diritto all’autodeterminazione e quello alla sicurezza, abbiamo chiesto un parere alla professoressa Viviana Meschesi, filosofa morale e bioeticista, per dipanare i vari aspetti della questione.

C’è una lunga storia di ricerca medica in relazione alle ‘human challenge trials’, in particolare in relazione alle vaccinazioni: infatti ricerche del genere sono già state fatte per esempio sulla malaria, sull’influenza A, sul colera e sullo pneumococco. E questo genere di ricerche suscita una maggiore attenzione dell’opinione pubblica, poiché mette in campo diverse questioni etiche.

In ottemperanza ai principi deontologici contenuti nel codice di Norimberga, nella dichiarazione di Helsinki e nel Belmont Report (recepiti ed elaborati a livello legale da codici nazionali e internazionali) vi sono alcuni criteri inderogabili nell’attività clinica e di ricerca che coinvolga soggetti umani: innanzitutto il rispetto della persona nel pieno riconoscimento della sua dignità personale e nella sua autonomia; non meno importante poi è il principio di beneficienza, ovvero l’obbligo di proteggere la persona dal danno (morale e fisico) massimizzando i benefici e minimizzando i rischi; infine viene sancito il principio di giustizia che prescrive una imparzialità nella distribuzione dei benefici (come degli oneri) della ricerca stessa.

Eppure, le numerose linee guida internazionali e nazionali sul corretto svolgimento della ricerca medica non riguardano specificamente le “human challenge trials”. E’ giusto infettare una persona sana? Come valutare il rischio di danno in questi volontari? Come considerare e quantificare il beneficio che i soggetti trarrebbero da questa ricerca?

Tali domande si riferiscono direttamente a diversi valori, giustificati da solide tradizioni morali e filosofiche, che si basano sulla principale preoccupazione di garantire che comunque gli interessi (possibili) della società non prevalgano sull’interesse del singolo partecipante. Lo Stato tende infatti in alcuni casi a proteggere il cittadino anche da se stesso: per esempio senza giustificazione terapeutica anche un’operazione chirurgica può diventare illegale, anche se c’è il consenso del paziente. Questo vuol dire che il consenso del paziente in molti casi è condizione necessaria ma non sufficiente.

Andando però oltre i vari dibattiti tra le diverse posizioni intenzionaliste o consequenzialiste, diversi bioeticisti si soffermano sul concetto di “finalità” di ricerche di tal genere, sottolineando l’importanza dell’autodeterminazione e dell’autonomia del soggetto in vista di un bene collettivo. Attraverso un consenso informato, una attenta valutazione del rapporto costo-beneficio, una accurata selezione dei soggetti di ricerca, minimizzando al massimo il rischio di danno, secondo molti sarebbe possibile condurre tali ricerche in modo etico.

D’altronde una situazione del genere si è già determinata per esempio negli anni ‘80 con i movimenti “Drugs into bodies” nati da alcune associazioni di pazienti positivi all’HIV e attivisti, che hanno fatto pressione sulla FDA per consentire la commercializzazione, dopo procedure di fast tracking, di farmaci sperimentali non approvati: la tesi fondamentale di queste associazioni di attivisti era che, con una nuova malattia epidemica come l’AIDS, testare nuove terapie sperimentali fosse essa stessa una forma di assistenza sanitaria e che l’accesso all’assistenza sanitaria dovesse essere un diritto di tutti.”

Ringrazio la nostra ospite per averci aiutato a chiarire alcuni aspetti e invito i lettori di infosec.news a lasciare un commento.

Voi che ne pensate? Accettereste di partecipare ad uno studio del genere? Accettereste di usare un vaccino realizzato in questo modo?

A voi la parola!

Back to top button