
Un assunto di base del giornalismo, e per la verità di qualunque attività legata alla conoscenza che voglia andare al di là dell’opinione, è la capacità di raccogliere, valutare ed interpretare fonti. Non è sufficiente catturare un elemento fattuale, ma bisogna contestualizzarlo ed interpretarlo correttamente. La pena per chi non lo fa è ovviamente la perdita di credibilità pubblica una volta che l’errore – accidentale o voluto – venga evidenziato.
Sarebbe ad esempio ridicolo che uno studioso di antichità classiche fornisse un’interpretazione complessiva della letteratura latina come poco seria, basandosi unicamente sulla lettura delle Fabulae Atellanae. Altrettanto ridicolo sarebbe che la statura scientifica di un genio della fisica come Richard Feynman fosse valutata sulla base delle sue famigerate manie e degli episodi comici al limite del paradossale raccontati dai suoi amici. La sostanza delle cose e delle persone va infatti valutata sulla base dei dati oggettivi e sugli atti dei singoli.
Sul quotidiano La Verità di oggi è apparso un articolo a firma di Luca Telese – notissimo giornalista e compagno di Laura Berlinguer – nel quale si descrive in termini negativi la figura dell’attuale commissario all’emergenza coronavirus Domenico Arcuri. Lo si fa non sulla base del suo impegno professionale precedente all’attuale incarico; né in relazione alle manchevolezze – alcune messe più volte in evidenza anche su queste pagine – della sua gestione presente. Lo si critica sulla base della descrizione satirica data di lui dai compagni di classe della Nunziatella, riportata sulle pagine dell’Albo Mak P del suo corso.
Avendo indossato anche noi la giubba blu dell’antica e prestigiosa Scuola Militare di Napoli, non ci lanceremo in una difesa d’ufficio che avrebbe il sapore del Cicero pro domo sua. In quanto persona informata sui fatti, ci teniamo tuttavia a collocare nel giusto contesto la fonte utilizzata. Un albo Mak P è per natura un documento satirico e paradossale, in cui ciascuno degli allievi viene messo in ridicolo dai compagni di classe. Si disegnano caricature, si parla esageratamente dei difetti fisici e caratteriali, dei nomignoli, delle caratteristiche di maggiore o minore secchionaggine, delle manie e delle manchevolezze. Il fine ultimo è quello di costruire una piccola capsula della memoria, che l’interessato possa riaprire un domani, quando le sue capacità lo avranno spesso trasformato in un personaggio di rilievo, e con un sorriso ritrovare i suoi anni verdi. In buona sostanza, un albo di quel genere non è una fonte attendibile per misurare il carattere e le capacità di chi vi è ritratto.
Naturalmente esiste un uso strumentale delle fonti, in cui si selezionano degli aspetti negativi riguardanti una persona, e sulla base di essi si procede alla character assassination. Una pratica che nel mondo ha una (dis)onorata tradizione, e che in Italia riporta alla mente le tristi memorie del metodo Boffo e le discussioni parlamentari conseguenti.
In buona sostanza, è nostra opinione che questo modo di procedere sia intrinsecamente errato, intellettualmente disonesto, e professionalmente discutibile. Il giornalismo, specie per chi fin dal titolo della testata dichiara di ispirarvisi, dovrebbe essere informato alla ricerca della verità. E personalmente riteniamo, forse con una certa dose di ingenuità, che quello del giornalismo dovrebbe essere un ambiente di gentiluomini assetati della verità stessa – ma forse abbiamo visto troppe volte Tutti gli uomini del Presidente.
Se non spinti dai principi di eticità personale o professionale, comunque, ognuno di noi dovrebbe evitare di usare la character assassination almeno per motivi di autodifesa. A nessuno potrebbe far piacere, ad esempio, che fosse pubblicata quella disgraziata foto di classe degli Anni Ottanta, in cui magari eravamo un giovanotto paffutello con un’improbabile giacca a quadri con le spalline e il dolcevita panna, che veniva chiamato Bombolo dagli amici.