
Come molti sanno, la progettazione del sistema che ha dato origine a Internet aveva scopi primariamente militari. II concetto di collegare più computer in rete, e soprattutto il famoso protocollo di trasmissione a pacchetto dei dati TCP/IP, sono nati al fine di difendere le reti di dati da eventuali attacchi nucleari. Se tutti i dati, poniamo, per la difesa di una nazione fossero immagazzinati in un solo computer posto in un certo luogo, sarebbe sufficiente colpire quel luogo per disorganizzare completamente una rete di difesa. Nulla di diverso da quanto si fa normalmente quando si pianificano le strategie belliche, soprattutto dopo l’avvento dell’arma aerea che ha reso irrilevante il concetto di fronte di combattimento. Tagliare le comunicazioni tra il comando e i reparti, o addirittura colpire e distruggere il comando genera un vantaggio strategico che può influenzare la condotta di un’intera guerra.
Come detto, internet nasce proprio per questo scopo, vale a dire l’organizzazione di un sistema in cui sia possibile spostare rapidamente i dati da un luogo all’altro, in modo che non esista un unico centro nevralgico, ma un’architettura distribuita che li mette al sicuro in caso di bisogno. Il concetto del bilanciamento strategico delle risorse è applicato in numerosi rami delle attività umane. I gestori di portfolio azionari cercano di distribuire i propri investimenti su un insieme variegato di azioni, in maniera che le eventuali perdite su una vengano bilanciate dai guadagni sulle altre. I gestori di attività promozionali e di comunicazione distribuiscono i propri investimenti su più canali e su più campagne, in modo da assicurare la buona riuscita dello sforzo complessivo.
La distribuzione delle risorse e degli investimenti è quindi un assunto strategico di base, persino dettato dal buon senso, e dovrebbe essere applicato da qualunque gestore o amministratore, dal padre di famiglia al responsabile di governo.
L’epidemia di coronavirus ci ha mostrato molto chiaramente quali siano i rischi di avere un Paese in cui la maggior parte degli investimenti, e conseguentemente la maggior parte dei ricavi, venga concentrata in poche realtà territoriali. La Lombardia, il luogo meglio connesso, meglio servito, dove si concentra la maggior parte delle risorse di investimento e delle attività economiche italiane, è stata anche la regione colpita più duramente dalla pandemia. Sulle cause mediche, ambientali, amministrative di questo dato di fatto andrà aperta tutta una stagione di indagine e di riflessione. È tuttavia indubitabile che l’impatto sul PIL nazionale dell’epidemia sarà tanto più importante, quanto più tarda sarà la riapertura di fabbriche, uffici e attività produttive lombarde.
Con questo, non intendiamo spingere incoscientemente, come taluni governanti fanno, sulla riapertura a qualunque costo e in tempi brevi. L’osservazione dei dati epidemiologici e di mortalità dice ancora che sfortunatamente in Lombardia, rispetto ad altre regioni, il riavvio delle attività produttive è un azzardo. Speriamo onestamente che vada tutto bene, ma preferiamo in questo momento mantenere un cauto scetticismo, sperando di essere smentiti.
Piuttosto, vogliamo aprire una fase di riflessione e discussione su come sia meglio per il nostro Paese distribuire le proprie risorse. L’epidemia ha mostrato molto chiaramente che se le attività produttive e commerciali fossero state maggiormente distribuite, in molte regioni sarebbe oggi possibile riaprire con maggiore sicurezza e portare il motore produttivo nazionale a regime in poco tempo.
Se si è d’accordo sull’insensatezza dell’approccio strategico concentrato e non distribuito, allora deve essere aperta una fase in cui gli investimenti vengano diretti a sviluppare macroregioni alternative rispetto a quella sopra il Po. E per investimenti non intendiamo affatto l’iniezione di liquidità a pioggia stile Cassa del Mezzogiorno, che ha avuto il solo risultato di attirare investitori a breve termine – sulla loro provenienza sorvoliamo – che esauriti i finanziamenti hanno lasciato unicamente un deserto umano e produttivo, per trascurare quello ambientale. La logica dei capannoni, dei dieci milioni di tute blu, è un relitto da relegare tra le pagine della nostra storia meno gloriosa. La produzione di oggetti, la manifattura, è fatta in maniera molto meno costosa da altri competitor su scala mondiale; e la mitologia dell’industria pesante, avendo negli occhi i fantasmi dell’ILVA di Taranto e dell’Italsider di Bagnoli, è da non pensarci neanche.
Vanno invece sfruttate e valorizzate le risorse di un Paese che è stretto e lungo, e circondato per due terzi dal mare. Che è ricco all’inverosimile di risorse culturali ed ambientali senza pari. Che ribolle di intelligenze che molto spesso per esprimersi devono prendere la via dell’estero. La deriva attuale del mondo avanzato, e le possibilità che abbiamo a disposizione, chiamano una sola parola per lo sviluppo strategico: connettività. Un Paese prevalentemente costiero che usa come fonte primaria di trasporto quello su gomma è una bestialità. Un Paese che voglia mettere a valore le proprie ricchezze storico-ambientali e che manchi di aeroporti adeguati è un’anatra zoppa. Un Paese che voglia competere nel mondo attuale, e che non si doti di infrastrutture adeguate di connessione informatica, è un non senso.
Nell’interesse della vita nazionale comune, della nostra coesione di popolo, e del nostro futuro nel mondo, dobbiamo quindi distribuire le risorse, costruendo le infrastrutture fisiche e tecnologiche che servano a livellare il campo di gioco e a metterci al riparo dalla prossima catastrofe sanitaria o ambientale.