SALUTE

Cosa è davvero successo nelle terapie intensive lombarde?

Una squadra (quasi) tutta lombarda di medici afferenti ai maggiori ospedali, capitanata dal Dottor Cecconi dell’Humanitas di Rozzano, ha pubblicato su JAMA la casistica completa dei pazienti COVID-19 ricoverati nelle terapie intensive (o ICU) regionali dal 20 Febbraio al 18 Marzo 2020. L’ultima data di follow-up è stata il 25 Marzo 2020.

Il lavoro, pubblicato come Original investigation, cerca di rispondere alla domanda di quali siano le caratteristiche comuni dei pazienti affetti da quest’odioso virus e ricoverati in ICU in Lombardia.

Intorno alla Fondazione IRCCS Ca’ Granda Ospedale Maggiore, che ha coordinato la rete, si è costituita la “Lombardy ICU Network”, formata da 72 ospedali.

Analizzando una serie consecutiva di 1.591 individui, i ricercatori hanno registrato i dati clinici e demografici di questi pazienti, tra cui l’insufficienza respiratoria e la mortalità. L’età media dei ricoverati era 63 anni e l’82% erano maschi. Dei 1.043 pazienti per cui questi dati erano disponibili, gli autori riportano che il 68% soffrisse di almeno una comorbidità e che il 49% soffrisse di ipertensione.

Dei 1.300 pazienti per cui erano disponibili i dati sulla respirazione, gli autori riportano che il 99% abbia sofferto di insufficienza respiratoria: l’88% ha avuto bisogno di intubazione endotracheale, l’11% di ventilazione non invasiva.

Inoltre, dall’analisi dei dati sui 1.581 pazienti di cui era disponibile il dato, risulta che la mortalità in terapia intensiva in Lombardia nel dato periodo fosse complessivamente del 26%. 920 pazienti (il 58%), alla stesura del manoscritto, erano ancora ricoverati in ICU; il 16% era stato dimesso dalla terapia intensiva verso altri reparti. I pazienti più grandi di 63 anni, rispetto ai più giovani, hanno sofferto di una mortalità più elevata: 36% contro 15%.

Abbiamo chiesto al Dott. Schiavoni del Campus Bio-Medico di Roma un parere terzo in merito.

“Come tutti gli studi osservazionali ha delle grosse limitazioni riguardo alla casistica, che correttamente vengono esposte anche dagli Autori.
Inoltre, molti casi non stati raccolti perché la gestione in Italia, ed in particolare in Lombardia, della ventilazione non invasiva è stata prevalentemente al di fuori del reparto di terapia intensiva, almeno in quest’ondata epidemica. Dunque gran parte di questi dati non è stata raccolta in questo studio.

Abbiamo dati basati prevalentemente sulla ventilazione invasiva, che all’inizio sembrava essere molto efficace, tant’è vero che veniva anche raccomandata la intubazione precoce in questo tipo di pazienti: questo sicuramente è un bias importante, non legato tanto al tipo di studio ma alla configurazione del nostro sistema sanitario e alla dimensione del problema in Lombardia.

L’altro limite, secondo me importante, è che hanno preso in considerazione la mortalità a un mese: la raccolta dei dati e veniva dal 20 febbraio al 18 marzo con un follow-up al 25 marzo.
Questo permette di screenare il tipo di decessi, nel senso che tendenzialmente i decessi precoci sono quelli dovuti alle complicanze a breve termine, quindi quelle legate più direttamente alla mortalità diretta da SARS-CoV-2 e quindi all’insufficienza respiratoria.

Il problema è che molti di questi pazienti sono molto anziani, quindi anche un 60% di pazienti ancora ricoverati distanza di un mese potrebbe dare una mortalità a tre mesi molto alta, legata soprattutto a tutte quelle complicanze dovute all’allettamento prolungato ed allo stesso ricovero in terapia intensiva di pazienti ad alto carico assistenziale che quindi, banalmente, possono sviluppare decubiti, pancreatiti, polmoniti nosocomiali o da ventilatore.
Quindi le complicanze a medio-lungo termine che possono aumentare la mortalità complessiva, in questo caso, sono state escluse: questo chiaramente dà un peso maggiore a questo 26% di mortalità a breve termine, perché vuol dire che il trattamento e la gestione di questi pazienti con intubazione orotracheale in Lombardia ha portato sicuramente ad un successo più ampio che non in altre casistiche; d’altra parte non esclude tutta una serie di casi di mortalità che potrebbero invece incorrere più a lungo termine, dato sottolineato anche dagli autori del lavoro. Sicuramente lo studio in questione rappresenta un dato che ha dei pro e dei contro. Questo non significa che in assoluto siano stati più efficienti in Lombardia, ma che certamente abbiano saputo gestire al meglio i pazienti ricoverati in terapia intensiva con tutti i problemi che questo può comportare.

Questo è un grande dato da un punto di vista della medicina italiana e, nello specifico, per la rianimazione italiana. Il dato conferma quello che molti di noi comunque già sanno, cioè che in Lombardia si trovano i più rinomati centri con le più elevate competenze per quanto riguarda la ventilazione meccanica e l’ARDS. Quindi stiamo parlando in assoluto dei più grandi centri dei centri di riferimento italiani per quanto riguarda la sperimentazione e lo studio di questo tipo di patologie.
Si potrebbe quasi dire che, al di fuori dalla Lombardia, si associano a questi centri al massimo Gemelli qui a Roma e pochi altri grandi centri universitari.

Questo conferma dunque la loro elevata esperienza nella gestione di questo tipo di patologie, ossia le insufficienze respiratorie pure di origine virale generale e non secondarie ad altre situazioni cliniche. Basti pensare che, nel corso dell’influenza H1N1, sono stati loro che hanno usato per primi l’ECMO veno-venoso in un paziente di ventinove anni.

Questo è il mio commento riguardo allo studio osservazionale. Per quanto riguarda invece gli aspetti più epidemiologici, quindi la mortalità e le co-morbidità, diciamo che credo che questi siano elementi ancora troppo “freschi”, nel senso che si sta guardando troppo alla presenza di comorbilità lievi, che in realtà potrebbero semplicemente essere collegate all’avanzare dell’età e non mi sembra si ricerchino invece possibili correlazioni con fattori sottostanti. Io non faccio l’epidemiologo, quindi più di tanto non riesco ad addentrarmi in questo discorso; però mi sembrano delle considerazioni, diciamo così, ancora troppo descrittive. Non c’è ancora un’analisi statistica accurata riguardo al campione epidemiologico. Andrebbe forse studiata meglio la correlazione tra le varie comorbidità e l’insorgenza dei quadri più gravi.

Aggiungo che, proprio per guardare meglio il dato della mortalità, sarebbe stato interessante sapere effettivamente quali erano i casi di pazienti morti per ipossia, ovvero quelli in cui la causa prevalente è stata ipossia che poi può aver scatenato qualunque altro tipo di complicanza sistemica e quali, invece, uscivano dalla polmonite da coronavirus e sono andati incontro alle complicanze di un ricovero protratto in una terapia intensiva come una sepsi o una pancreatite. Questo purtroppo non è scritto ma sarebbe molto interessante poter sviscerare il dato.

La mortalità in terapia intensiva, così come presentata dagli Autori, dice abbastanza dal punto di vista della capacità di gestione, ma non dice tutto. Sarebbe molto interessante poter sapere di più su quello che è successo nei quasi 1.600 pazienti, perché la casistica è molto ampia.

Lorenzo Schiavoni è un anestesista con un grande interesse scientifico per le ARDS e referente per le coagulopatie in terapia intensiva al Policlinico del Campus Bio-Medico di Roma, non è stato coinvolto nella stesura del lavoro pubblicato. Lo ringraziamo, anche a nome di tutta la redazione di INFOSEC.NEWS, per essersi prestato alla realizzazione di quest’articolo!

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