
Il Ministro Dario Franceschini ha ottenuto che la sua proposta di riaprire i musei il prossimo 18 maggio entrasse a pieno titolo nella “historia liberationis” annunciata dal premier Giuseppe Conte. Vittoria politica ottenuta anche con qualche personale forzatura nei confronti del Presidente del Consiglio. In questa scelta, tuttavia, qualcosa non convince. Abbiamo, in Italia 4.908 tra musei, aree archeologiche, monumenti e ecomusei aperti al pubblico (dati Istat 2019). È un patrimonio diffuso su tutto il territorio: un comune italiano su tre (2.311) ha almeno una struttura a carattere museale, una ogni 50 Kmq e una ogni 6 mila abitanti. La maggior parte sono musei, gallerie o raccolte di collezioni (3.882), cui si aggiungono 630 monumenti e complessi monumentali, 327 aree e parchi archeologici e 69 strutture ecomuseali, giusto per la completezza di informazione.
Ma degli oltre 128 milioni di visitatori, il 58,6% degli estimatori del nostro patrimonio culturale sono stranieri (dati ufficiali 2018). E non possono venire. Non abbiamo invece una scomposizione territoriale dei visitatori italiani, perciò non possiamo certificare quanti visitatori emiliani abbiano visitato, ad esempio, il Museo Ladino della Val di Fassa. Perché tra regione e regione gli spostamenti rimangono non autorizzati.
Dubito fortemente, tuttavia, che dal Trentino saliranno in 33 per visitare il sopracitato museo, non essendo vietati gli spostamenti interprovinciali. La ratio della scelta del Ministro diviene più impercettibile se si considera il fatto che solo il 10,4% le strutture dispongono di un catalogo scientifico digitale del proprio patrimonio e che in tempo di “immobilità” il sistema museale sembra rimasto del tutto al riparo dalla digitalizzazione forzata registrata in Italia. Di questi 10 su 100, un terzo (37,4%) ha completato il processo di digitalizzazione, due terzi hanno avviato le attività di digitalizzazione ma hanno coperto circa solo il 50% dei beni e delle collezioni disponibili. Anche l’utilizzo di tecnologie interattive e strumenti digitali che consentono di arricchire l’esperienza di visita e l’engagement del pubblico è limitato a neanche la metà delle strutture (44,7%) sommando tutte quelle che mettono a disposizione almeno un dispositivo tra smartphone, tablet, touch screen, supporti alla visita come sale video e/o multimediali, tecnologia QR Code e percorsi di realtà aumentata. Non c’è bisogno di molti altri dati per sostenere che la comunicazione e l’informazione onsite presenta ampi margini di sviluppo e che la comunicazione online sui più importanti social media (come Facebook, Twitter, Instragram, ecc.) diviene decisiva non solo in tempo di coronavirus ma soprattutto subito dopo, mentre invece i progressi sul fronte della vendita online dei biglietti ( 14%) e la messa disposizione della Wi-Fi gratuita (25,1%) giace in stato di assoluta arretratezza. Se non ci si può muovere per andare al museo, è possibile che si muova il museo verso di noi? In teoria si. In pratica lo fa un museo su dieci (9,9%). Ecco: l’ultimo DPCM avrebbe potuto e dovuto affrontare seriamente questo aspetto piuttosto che annunciare una ripartenza in totale continuità con l’arretratezza del passato. Una arretratezza che non ha rispetto nemmeno dei numeri, perché se è vero gli stranieri vengono nei nostri musei non è altrettanto vero che i musei propongono pannelli, didascalie e schede in lingue diverse dall’italiano (solo la metà) e in meno dei due terzi dei casi (63,7%) possono contare su personale in grado di fornire al pubblico straniero informazioni in inglese (la quota scende al 29,9% per la lingua francese, all’11,6% per il tedesco e al 10,5% per lo spagnolo). E’ vero però che numerose strutture espositive presentano barriere fisiche e sensoriali, il cui ritardo – in epoca di distanziamento – agevola lo scaglionamento dei visitatori.
Dopo il furto con scasso che aveva sottratto al Mibact le competenze turistiche, perché la Lega le aveva volute per sé al Ministero delle politiche agricole, Franceschini ha avuto buon gioco a riprendersi il turismo.
Ma questo rende ora più incomprensibile la scelta di lasciar chiusi bar, ristoranti, artigiani, parrucchieri e ciabattini supponendo che esista il turista angelicato che punta ai musei senza guardar dentro una bottega lungo la via e senza cercare un qualche ristoro fisico dopo aver ristorato la mente con tutta la più bella bellezza che esista al mondo. Perciò rimane la domanda iniziale (musei aperti a chi?) con l’annesso dubbio che la costosa macchina peserà ancora di più sul bilancio pubblico per essenza imposta di domanda, mentre nel suo complesso l’offerta di beni culturali museali resterà una delle poche isole infelici a non subire l’ondata della digital trasformation resa obbligatoria assieme alle mascherine.