
L’ultima versione del Protocollo condiviso per il contrasto ed il contenimento della diffusione del COVID 19 negli ambienti di lavoro è arrivata a ridosso della mezzanotte. Sembra scritta per non patire l’umiliazione di Zaia che oggi festeggia il Patrono della Serenissima, San Marco, e che ha annunciato, forzando il blocco, che da lunedì il Veneto tornerà in piena attività. Il nuovo Protocollo aggiorna quello precedente, siglato il 14 marzo e stabilisce distanze, modus operandi, responsabilità, dispositivi di protezione e di sanificazione tramite gel e mascherine. In attesa di vedere come si disporranno 2 milioni e 500 mila romani per accedere alla rete di trasporto su ferro, bus e tram che non ne potrà trasportare più di 500 mila al giorno e in attesa di capire a chi spetterà il compito di far rispettare le norme contenute nel nuovo Protocollo (nel caso di Roma: l’azienda trasporti dice che non riuscirà a presidiare neanche le 150 stazioni della metro; i vigili urbani hanno altro da fare e il Prefetto della città eterna Gerarda Pantalone ha escluso il rinforzo delle forze dell’ordine): in attesa di tutto questo sappiamo che gel e mascherine saranno il menù base della fase 2, rigidamente disciplinato (sulla carta) dal Protocollo approvato nottetempo.
Il testo è radicale nell’attribuire al datore di lavoro responsabilità ferree: l’azienda fornisce una informazione adeguata sulla base delle mansioni e dei contesti lavorativi e soprattutto il datore di lavoro informa preventivamente il personale, e chi intende fare ingresso in azienda, della preclusione dell’accesso a chi, negli ultimi 14 giorni, abbia avuto contatti con soggetti risultati positivi al COVID-19 o provenga da zone a rischio secondo le indicazioni dell’OMS. Siccome il nuovo Protocollo in qualcosa deve pur differenziarsi dal precedente, nei 46 punti di cui si compone sono state inserite precisazioni e declinazioni preziosissime che lo rendono cogente ed efficiente. Una prima novità riguarda la modalita di raccolta dei dati da autocertificazione. Il nuovo testo dice che “qualora si richieda il rilascio di una dichiarazione attestante la non provenienza dalle zone a rischio epidemiologico e l’assenza di contatti, negli ultimi 14 giorni, con soggetti risultati Positivi”, occorre prestare molta attenzione alla disciplina sul trattamento dei dati personali.
Perché? Perché l’acquisizione della dichiarazione costituisce trattamento dati, materia incandescente dai risvolti pericolosissimi. A tal proposito il Protocollo suggerisce di stare alla larga dai possibili trabocchetti, di raccogliere solo i dati necessari, adeguati e pertinenti rispetto alla prevenzione del contagio da COVID-19. Ad esempio, se si richiede una dichiarazione sui contatti con persone risultate positive, occorre astenersi dal richiedere informazioni aggiuntive in merito alla persona risultata positiva o sulla provenienza da zone a rischio epidemiologico, soprattutto è necessario astenersi dal richiedere informazioni aggiuntive in merito alle specificità dei luoghi. Poi però il testo fa un salto triplo e si avventura nella fattispecie dei lavoratori dipendenti da aziende terze che operano nello stesso sito produttivo (es. manutentori, fornitori, addetti alle pulizie o vigilanza) che risultassero positivi, e stabilisce che in questo caso l’appaltatore dovrà informare immediatamente il committente ed entrambi dovranno collaborare con l’autorità sanitaria fornendo elementi utili all’individuazione di eventuali contatti stretti, indicando quindi luoghi, persone, circostanze che aiutino a ricostruire una mappa ragionata dei contatti, ovvero accedendo a tutti quei dati che la certificazione aveva prima avvertito di non considerare. Ma il salto , con avvitamento, più spettacolare arriva alla fine del Protocollo, al punto 40, dopo che nei precedenti 39 è stato abbondantemente spiegato e stabilito che in nessun modo e per nessuna ragione è consentito l’ingresso nei posti di lavoro senza la necessaria protezione individuale e che, pertanto , il datore di lavoro ne risponde direttamente avendo l’obbligo di tutelare la salute di tutte le persone fisiche presenti in azienda.
E’ per questo che al punto 23, riassumendo la declinazione delle misure del Protocollo all’interno dei luoghi di lavoro, viene prevista per tutti i lavoratori l’utilizzo della mascherina chirurgica. E nel caso malaugurato che un lavoratore risulti positivo nonostante le precauzioni messe in atto e nonostante tutte le sorveglianze e i controlli?
Ecco la risposta al punto 40/1: “Il lavoratore al momento dell’isolamento, deve essere subito dotato ove già non lo fosse, di mascherina chirurgica”.
Perché va bene farla franca ai tornelli, e poi in ufficio, e poi in mensa e poi sul tram e schivare i controlli a raffica previsti e imposti dal Protocollo: se ti becchi il virus, la mascherina la devi indossare subito e il datore di lavoro ha l’obbligo di vincere ogni eventuale resilienza.