
Una celebre citazione di Wilde recita: “Solo le persone superficiali non giudicano dalle apparenze”.
Restiamo dunque sulle apparenze della app Immuni.
Di conseguenza è importante considerare la reazione diffusa alle notizie. È evidente che sulla app Immuni sono presenti rumors, voci di corridoio, dichiarazioni più o meno coerenti da fonti ufficiali, smentite e chiarimenti, nonché rappresentazione delle implicazioni negative in caso di mancato utilizzo “volontario”. Ad esempio, il commissario Arcuri si esprime in tal senso: “In tutto il mondo alleggerire il contenimento significa essere in grado di mappare tempestivamente i contatti delle persone; l’alternativa sarebbe non alleggerire le misure, privandoci di quote importanti della nostra libertà come in queste settimane è accaduto”.
Sono anche presenti pareri contrari, ovviamente, ma questi lentamente vengono additati sempre più spesso come “nemici della salute pubblica” rievocando memorie giacobine e altrettanti timori circa gli eccessi prospettabili. Ad esempio: ai dubbi riguardanti alcune carenze di trasparenza comunicativa si oppongono argomenti che non investono il merito, ma si limitano ad essere un apodittico tranchant che si appella alla gestione di un’emergenza e all’importanza di tutela della vita e della salute. Insomma: si invoca in soccorso la fallacia logica dell’Argumentum ad misericordiam per forzare un senso di colpa e, sostanzialmente, non affrontare un eventuale problema rappresentato.
Circolano sui social il Drake approves meme per svilire le esigenze di privacy (Rinunciare alla privacy per il tracciamento degli infetti / Rinunciare alla privacy per “Che verdura sei” è un tipico esempio di Reductio ad ridiculum) e il fumetto di Nicky Case esplicativo del contact tracing che sembra quasi suggerire il famoso “ti faccio un disegnino” che si rivolge ad un interlocutore o poco attento o con scarso comprendonio.
Ulteriormente, una parte del popolo dei social ribadisce che “tanto le Big Tech già sanno tutto di noi”, o “io non ho nulla da nascondere e dunque non me ne faccio un problema”. Da un lato, c’è una rassegnata accettazione e arrendevolezza. Dall’altro, si confonde la protezione dei dati con un diritto al preservare qualche losco segreto rievocando la famosa provocazione di Posner privacy as fraud, in cui sostanzialmente il mantenimento di segreti nelle relazioni sociali era equiparato al nascondere un difetto del prodotto da parte di un venditore.
Insomma: se ci sono problemi di cultura della privacy, intesa nell’ampio senso della protezione dei dati personali, certamente la app Immuni è stata l’occasione che li ha resi oggi quanto mai evidenti ed apparenti.
Bisogna ricordare che il delicato equilibrio perseguito dalla protezione dei dati personali avviene attraverso il bilanciamento delle (inevitabili) interferenze nella vita privata dell’individuo, nonché con la garanzia di un’elevata sicurezza delle informazioni personali. Forse questa sensibilizzazione diffusa è mancata e tutt’ora manca.
Senza consapevolezza degli scenari digitali, ciascuno è chiuso all’interno di una caverna credendo che le ombre sul muro, o sugli schermi (con tanto di consensi preflaggati), rappresentino l’unica verità e che il pensiero critico altro non sia che un elemento di disturbo.
Se l’individuo non ha percezione del valore dei propri dati, come può essere in grado di valutare i rischi collegati e così decidere non solo come “interessato” ma anche come “cittadino digitale”?