
Purtroppo è vero che le leggi sono fatte per essere interpretate ed applicate, ma talvolta sarebbe necessario anche riflettere in modo più approfondito, per evitare di ritrovarsi ad essere emuli di Emilio Fede e della sua nota plateale constatazione, dopo la famosa figuraccia in diretta tv.
Per essere meno criptici, l’argomento della riflessione riguarda l’interazione tra l’infezione da covid-19 ed il sovraffollamento delle carceri, rispetto ad alcune conseguenze derivanti.
Approcciando il problema facendo ricorso alla maieutica, esaminiamo i fatti cercando di trovare punti di partenza o postulati, che possano rappresentare un giusto livello di condivisibile convergenza.
Chi va in carcere, per efferati reati di mafia, destinato al 41 bis, a seguito di sentenze confermate da tre gradi di giudizio, quindi tecnicamente definibili come passate in giudicato, dovrebbe restarci con un fine pena mai, ed in ogni caso senza poter usufruire di sconti ed alternative, soprattutto se le condanne sono relative a reati reiterati, oltre che violenti e sanguinari.
Naturalmente è necessario preservare i casi di palesi errori giudiziari, che poi portano, magari dopo molti anni, a clamorose conseguenze. Come nel caso di Bruno Contrada, ex alto funzionario della Polizia di Stato, poi approdato ai Servizi Segreti, condannato a 10 anni per concorso esterno in associazione mafiosa, che recentemente, dopo una sentenza favorevole della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, si è visto riconoscere, dalla seconda sezione della Corte d’Appello di Palermo, la somma di 667 mila euro, a titolo di riparazione per l’ingiusta detenzione patita nel procedimento penale.
Ovviamente a chi è in carcere, essendo il nostro, un Paese democratico, devono essere assicurati tutti i diritti umanitari di base, in esito al trattamento cui deve essere sottoposto un cittadino in regime di detenzione.
Quindi in una situazione di pandemia, in cui vengono, giustamente, imposte delle forti limitazioni dei diritti costituzionali a tutti i cittadini, appare pacifico che chi è già in una situazione di ristrettezza giudiziale particolare, come quella prevista dal 41 bis che prevede uno stretto isolamento, lo status quo dovrebbe rimanere tale, non ostando affatto con le indicazioni anti pandemia, anzi rappresentando una tutela specifica per il detenuto.
A questo punto nella mente di qualcuno emergono elucubrazioni straordinarie, che il comune cittadino, dotato di normale capacità di intendere e volere, risolverebbe in un batter d’occhio, ma che in taluni portano a soluzioni che, volendo utilizzare un linguaggio elegante, non possono che essere definite inaccettabili.
Cerchiamo di ipotizzare l’accidentato percorso mentale di questi oscuri meandri.
È evidente che le persone costrette in un penitenziario non possono spostarsi, inoltre, se anziane, hanno un maggior livello di rischio, in caso di contagio della struttura, tenuto conto che, negli ambienti chiusi, se il virus riesce a penetrare, l’eventualità di infettarsi è maggiore.
Ergo, siccome lo Stato è responsabile di quanto accade in un penitenziario, è giusto fare uscire i detenuti anziani, dall’isolato regime del 41 bis, per mandarli a casa con i parenti, che notoriamente lo proteggeranno dall’infezione, più dell’isolamento, intimando il divieto di incontrare altri pregiudicati.
Questo è, sostanzialmente, il ragionamento alla base della decisione del giudice di sorveglianza del tribunale di Milano, che ha concesso gli arresti domiciliari al capomafia di Palermo Francesco Bonura, 78 anni, condannato definitivamente per associazione mafiosa a 23 anni, sottolineando che, dato lo stato di emergenza in cui si trovano i penitenziari, “siffatta situazione facoltizza” il magistrato “a provvedere con urgenza al differimento dell’esecuzione pena”, quindi, escludendo il pericolo di fuga, lo ha inviato in famiglia a Palermo, dove gli ha prescritto che “non potrà incontrare, senza alcuna ragione, pregiudicati” e inoltre, “lo autorizza” ad uscire da casa, ogni volta che occorrerà “per motivi di salute” anche se dei familiari.
È appena il caso di sottolineare il certo effetto domino di questa decisione, tenuto conto che sono 74 i boss, con età superiore a 70 anni, oggi al 41 bis, del calibro di Leoluca Bagarella, Pippo Calò, Raffaele Cutolo e Giuseppe Piromalli, i cui avvocati, senza alcun dubbio, cercheranno, approfittando della situazione, di avvalersi del ghiotto precedente, chiedendo di ottenere lo stesso trattamento, anche in virtù di una direttiva del DAP (Dipartimento Affari Penitenziari) del Ministero della Giustizia, che il 21 marzo scorso invitava le direzioni delle carceri a «comunicare con solerzia all’autorità giudiziaria, per eventuali determinazioni di competenza», i nominativi dei detenuti, con eventuali patologie ricomprese fra le nove patologie indicate dai sanitari dell’amministrazione penitenziaria, oltre ai nominativi di tutti i detenuti che superano i 70 anni, suggerendone la scarcerazione per motivi di salute.
Una persona comune, posta di fronte allo stesso problema, data la situazione delle carceri, avrebbe studiato, in modo preventivo, un protocollo, che, ad onore del vero, poteva essere mutuato da quello che doveva essere attuato anche per le RSA dove vivono gli anziani non autosufficienti, che parimenti non possono circolare liberamente, con il vantaggio che nel caso dei penitenziari a nessuno sarebbe venuto in mente di utilizzarli come valvola di sfogo per gli ospedali sovraffollati, mandandogli persone malate di covid-19 senza necessità di terapia intensiva.
Mi permetto di fare un breve caveat, avendo personalmente subito la misura restrittiva, riferita ad un parente stretto, ricoverato in RSA, poi deceduto in completa solitudine senza l’affettuosa vicinanza di alcun caro, per sottolineare che quando, all’inizio dell’emergenza, le RSA sono state chiuse ai famigliari, impedendone l’accesso alle strutture, a nessuno è venuto in mente di incendiare gli immobili e prendere in ostaggio il personale, come successo in molti penitenziari quando sono state sospese le visite dei famigliari, non certo con intenti repressivi, bensì in una, non compresa, ottica protettiva.
Sembra chiaro che se si fosse adottato uno specifico protocollo che oltre a prevedere l’interruzione delle visite dei famigliari, avesse previsto controlli e tamponi su tutti gli operatori che entrano nei penitenziari a qualsiasi titolo, oltre a sanificazioni periodiche ed all’uso di presidi di protezione e disinfettanti specifichi, come previsto anche per le aziende che hanno continuato a lavorare in periodo di lockdown, il coronavirus difficilmente sarebbe entrato nei penitenziari, affermazione confermata anche da quanto accaduto nelle poche RSA che hanno rigidamente applicato protocolli analoghi, elaborati in proprio ed autoimposti, oltre a rifiutare l’arrivo di pazienti covid-19.
Un’ultima considerazione viene spontanea: oltre al risentimento delle vittime delle mafie, che giustamente non comprendono gli atteggiamenti presi nei confronti di chi ha trucidato i propri cari, pensiamo anche all’enorme lavoro di indagine svolte dai magistrati inquirenti, dagli operatori di polizia giudiziaria e dai tecnici di supporto alle tecnologie utilizzate, oltre alla quantità di denaro investito per tutte le attività di intercettazione, che viene depauperato da una decisione, che pur volendo essere propinata come approfondita, rileva tutta la sua superficiale e frettolosa applicazione della legge da parte di chi, novello Pilato, sacrifica il lavoro di tanti ed i soldi di tutti oltre al dolore dei parenti delle vittime, sull’altare di una propria opinabile interpretazione della giustizia.