
Per infosec.news abbiamo intervistato il Prof. Domenico Britti, professore ordinario di Clinica medica veterinaria e Presidente della Scuola di Farmacia e Nutraceutica presso Università Magna Graecia di Catanzaro. Britti ha tra i suoi numerosi interessi scientifici i processi che coinvolgono la sanità pubblica e lo sviluppo del concetto di One-Health, ovvero che il mondo umano e animale, condividendo lo stesso ambiente hanno una sola medicina.
Recentemente, in collaborazione con colleghi della Statale di Milano e dell’UCSC/IRCCS Gemelli di Roma, ha pubblicato sulla prestigiosa rivista “Microbes and Infection” il lavoro Molecular basis of COVID-19 relationships in different species: a one health perspective.
- Professore, innanzitutto grazie per aver accettato il mio invito. Ci può dire da dove nasce questo studio?
- Grazie a lei, non siamo dei presenzialisti, ma rispondiamo volentieri ad un garbato invito come il vostro. Lo studio nasce che nel mondo della Medicina Veterinaria è molto presente il concetto di One health, ovverosia riconoscere l’intima connessione tra salute umana, degli animali e dell’ambiente. Questo è un concetto fondante nella moderna Medicina.
- Quale crede possa essere l’impatto dei coronavirus animali sulla pandemia in corso?
- È un tema molto complesso, storicamente animali e uomini hanno condiviso, o per via alimentare o per lo stretto contatto vari patogeni. Il patogeno, sia esso virale, batterico, protozoario o superiore (nematodi, platelminti etc) non ha alcun interesse ad uccidere l’ospite ma cerca una convivenza e, nel tempo, questa continuità di passaggio animale-uomo e viceversa ha attenuto la virulenza di molti patogeni.
Faccio un esempio: il virus vaiolo (malattia virale della famiglia poxvirus) ha attraversato la storia dell’uomo con focolai che si sono ripetuti in Europa mietendo centinaia di migliaia di vittime all’anno. Intorno al XVIII secolo, si aveva l’evidenza che le persone che vivevano a stretto contatto con equini e bovini prendevano la malattia in forma lieve, ad es. nei mungitori si limitava alle mani. In qualche modo, dunque, quel virus era diventato meno letale. Questo portò un medico inglese, Edward Jenner, a concepire l’idea di inoculare il materiale prelevato dalle pustole vaiolose delle mani di una mungitrice, a degli esseri umani, al fine di immunizzarli. L’intuizione funzionò, erano nati contemporaneamente il primo vaccino e la prima vaccinazione. Oggi si pensa che l’intuizione di Jenner fosse ispirata dal fatto che mercanti inglesi avevano visto e riportato questa pratica in altre aree del mondo, forse in Cina, ma in quel momento storico, l’Inghilterra era una nazione potente e gli altri Stati europei, pur essendo a volte in conflitto con essa, guardavano all’Inghilterra con ammirazione e la pratica inglese si diffuse il Europa salvando la vita a milioni di persone.
Sempre nel solco dei virus condivisi tra animali e uomo basti pensare che il virus del cimurro del cane, quello della peste bovina e quello del morbillo nell’uomo sono parenti strettissimi.
- Molti mezzi di informazione (da “Il Salvagente” fino al sito web dell’ANMVI) hanno captato solo la parte del vostro lavoro che sottolineava gli aspetti positivi del contatto con gli animali, però a me è parso che nel lavoro sottolineavate anche dei pericoli. Potrebbe aiutare i nostri lettori a comprendere meglio questo tema?
- Questo è un problema comune nella divulgazione: per poter comprendere appieno un testo scientifico non basta la semplice lettura ma è necessaria una stratigrafia di concetti e competenze.
Nel nostro articolo sosteniamo che le analogie tra alcune proteine chiave per il riconoscimento e l’infezione del virus SARS-CoV-2 e quelle che appartengono a virus simili nei nostri animali domestici potrebbero aprire ragionamenti interessanti legati alla suscettibilità e, in questo studio in particolare, alla parziale protezione dal virus. Ma questi sono dati preliminari che, comunque, andranno validati sperimentalmente. Ovviamente in un mondo spaventato dal COVID-19 non mi meraviglia che questa scheggia di scienza abbia mosso chiavi di lettura molteplici. In sintesi, l’idea di fondo e che promuovo con forza, è che l’uomo, con il mondo animale, condivide batteri, virus e parassiti ma spesso le “due medicine” umana e veterinaria, al di là di una professione di intenti (il concetto di One Health, tante volte propagandato) non riescono a condividere informazioni e obiettivi.
- La comunità scientifica si sta muovendo per studiare gli effetti del virus sugli animali diversi dall’uomo. che SARS-CoV-2 possa creare danni alla fauna selvatica e all’industria zootecnica?
- In medicina veterinaria siamo abituati da molto tempo ad avere a che fare con questo tipo di virus, ceppi di Coronavirus sono presenti da molte decine di anni in molte specie domestiche di interesse commerciale, dal bovino al pollame, e di interesse affettivo (cane e gatto), ne conosciamo già la clinica e, dove è stato possibile, sono già stati sviluppati vaccini.
- Secondo lei la comunità scientifica dei Veterinari è stata coinvolta a sufficienza nelle ricerche sulla pandemia in corso? Se no, come pensa che il Veterinario possa contribuire all’ulteriore formazione di conoscenze su questo tema?
- In questa crisi, purtroppo, ho notato uno scarso coinvolgimento dei medici veterinari nelle diverse strutture e Task-force che hanno come scopo quello di arginare questa pandemia. È un peccato, i veterinari sono abituati alla gestione e al contenimento delle epidemie, alla sorveglianza sanitaria, allo sviluppo dei vaccini.
Questo è un problema con una lunga storia, che è collegata all’abbandono delle attività agricole e alla perdita di memoria della civiltà contadina. Sempre di più le persone pensano al medico veterinario come al medico dei loro cani e dei loro gatti, dimenticando che è anche il medico che sovrintende alla sanità e igiene degli allevamenti, alla sicurezza degli alimenti che da questi provengono nell’interesse del consumatore, alla sorveglianza delle frontiere per evitare che focolai epidemici di malattie che metterebbero a rischio il patrimonio zootecnico nazionale possano colpire gli interessi della nostra Nazione.
In questi giorni a volte sono stato preoccupato dal modo in cui, a livello mondiale e nazionale, è stata affrontata la pandemia: incertezze, lungaggini, gruppi di lavoro enormi, conferenze stampa ed esposizioni mediatiche rilevanti. Io penso che i professionisti che sanno fare agiscono di conseguenza senza perdere tempo in passerelle e, soprattutto, una Nazione progredita debba già avere dei piani di intervento con strategie apposite già tracciate. Si premiano i cavalli che vincono le corse e non quelli che hanno i fiocchi più belli alla partenza.
Ringraziamo ancora una volta il Professor Britti per il suo generoso colloquio e per l’eccellente lavoro pubblicato. E, soprattutto, ringraziamo tutti i nostri lettori!