SALUTE

Pasquarantena

Un giorno, qualcuno scriverà la storiografia del grande evento collettivo che stiamo vivendo

Nella mia esperienza di storico ho imparato che per ricostruire gli eventi, e soprattutto per la loro interpretazione, è necessario effettuare un lavoro di tipo scientifico. Si parla di interpretazione e di storiografia, perché la storia è una rappresentazione del reale, e non la realtà stessa. La realtà è un insieme di elementi fisici, temporali ed emozionali. È il luogo dove l’avvenimento si svolge, con le sue caratteristiche: l’ambiente rurale, cittadino, marino; le condizioni meteorologiche come il vento, la pioggia, il sole. È il punto di vista di ogni singolo partecipante all’evento che sperimenterà ed interpreterà quanto succede dalla sua propria prospettiva e secondo il proprio stato emozionale.

La storia si costruisce sulla base delle fonti primarie e secondarie, e cioè i resoconti di chi ha partecipato all’evento; e quelli di chi ha raccolto la testimonianza di questi ultimi. Secondo quanto detto sopra, ovviamente le fonti primarie sono gravate dalla soggettività – un soldato che esce indenne e vincitore da una battaglia non ha la stessa prospettiva, pur avendo partecipato allo stesso evento, di uno che ne esce ferito e sconfitto. Le fonti secondarie, poi, sono a loro volta affette dalla parzialità delle informazioni trasmesse – chi racconta tende sempre a magnificare il proprio ruolo e a nascondere i propri errori; nonché dall’ulteriore parzialità di chi ascolta e trascrive – il quale a sua volta può omettere o esagerare dei particolari a seconda del proprio stato del momento e del proprio portato culturale.

Per questo motivo, il lavoro degli storici è un continuo bilanciamento di fonti, e di incrocio di informazioni, come in un’indagine di polizia. Le testimonianze dei protagonisti devono essere vagliate non in senso assoluto, ma per confronto con altre riferentesi allo stesso evento; e quelle delle fonti secondarie, come ad esempio i giornali, vanno valutate in quanto tali, con l’aggravante del pregiudizio di parte che normalmente affligge le testate politicamente schierate. L’incrocio di tutto ciò consente di derivare una gradazione di eventi: da quelli certi, riportati come tali in tutte le fonti; a quelli probabili, riportati più o meno alla stessa maniera anche in fonti contrapposte; e a quelli possibili, riportati da una sola fonte, magari secondaria, e non confermati o contestati da alcuno.

Un giorno, qualcuno scriverà la storiografia del grande evento collettivo che stiamo vivendo, e che avrà per noi e per le prossime generazioni una valenza maggiore di quella dell’attentato alle Torri Gemelle di New York del 2001. Mentre quest’ultimo avvenimento, che pure ha avuto risonanza e conseguenze planetarie, non ha coinvolto alla stessa maniera tutta la popolazione mondiale, la pandemia di coronavirus è la prima, grande esperienza collettiva dell’umanità del XXI secolo. Un momento vissuto da tutti, più o meno nello stesso momento, ed apparentemente con le stesse dinamiche.

Eppure, anche qui, le prospettive nel vissuto collettivo sono differenti, persino nella stessa nazione. In Italia, l’esperienza terrificante dei cittadini lombardi, che hanno visto i propri familiari e vicini di casa morire a decine di migliaia, non è la stessa dei cittadini campani, per i quali fino a questo momento i contagiati ed i morti, anche grazie al decisionismo di chi governa, e alla bravura dei medici, sono stati un’esperienza molto limitata. E quella dei tanti commercianti, imprenditori, professionisti, che in questo momento vedono le proprie attività ristagnare e guardano con grande preoccupazione al proprio futuro, non è la stessa dei lavoratori del terziario avanzato che continuano a lavorare in smart working o dei dipendenti statali che stanno tranquillamente a casa. Ed infine, non è la stessa quella di chi in questo mese di lotta contro la malattia ha avuto responsabilità di governo a qualunque livello, o ha operato in prima linea nella cura dei malati, rispetto alla grande maggioranza dei cittadini che, pur con disagio e difficoltà, hanno potuto prendersi cura solo di sé stessi.

E dunque, come si fa a raccontare oggettivamente questa Pasqua di quarantena, avendo nella testa che queste parole potranno magari un giorno essere una fonte per qualcuno? Aprire l’animo all’esterno e raccontare la situazione è come aprire il vaso di Pandora. L’esperienza personale è quella di un periodo di reclusione con qualche disagio. Il lavoro che continua, anzi accelera; il respiro caldo nella mascherina mentre sei in fila per fare la spesa; la sensazione di irrealtà e di orrore dei primi giorni, quando il contagio e la morte si espandono; i bambini rinchiusi e nevrastenici, divisi tra Youtube, la Playstation ed un litigio per futili motivi; i genitori anziani a meno di cinquecento metri, ma che riesci a vedere solo in videochiamata; le strade deserte e senza vita; la sensazione da fine del mondo quando di sera esci a buttare la spazzatura, ed il silenzio è una cosa così solida, che la puoi toccare.

Ed in parallelo al mondo interiore, gli echi dell’esperienza collettiva, che parlano di incredibile incoscienza nell’affrontare la patologia in tutti i paesi; di ognuno che pensava di essere immune, e invece è stato colpito più duramente degli altri; dell’arroganza dei leader internazionali, che a volte hanno pagato di persona, e forse più duramente pagheranno; della miseria di coloro che in questa situazione discutono di accordi economici, di soldi, di sovranità, di assetti politici, come se nulla fosse e come se non fossimo tutti nella medesima scialuppa malandata.

Ma una volta andato in fondo a tutto ciò, come nel vaso di Pandora, nella giornata di oggi brilla la speranza. Quest’anno non è effimera, non dura il breve spazio della benedizione della tavola prima di pranzare; non si esaurisce con l’ultima sillaba della parola “auguri”; e non è vuota come l’uovo di cioccolato che la cultura consumistica ci ha insegnato a regalare ai bambini.

È la ghiandaia che ho incredibilmente visto volare sui tetti di città qualche giorno addietro. È il profumo del mare cristallino, portato dal vento. È l’acqua trasparente dei fiumi senza il quotidiano carico delle nostre colpe. Sono gli occhi delle persone che si scambiano un cenno di saluto ed un sorriso anche sopra le mascherine.

In fondo a tutto, ultima dea, c’è la speranza di uscirne migliori. Starà a voi del futuro scrivere la storia del nostro successo o del nostro fallimento.

Back to top button