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COVID-19 in Africa? Parlo io che sto in Rwanda

Il messaggio in bottiglia arriva da Stefano Dragani, generale dell’Arma dei Carabinieri, da anni in missione all’estero con ruoli importanti nel processo di stabilizzazione delle aree africane a più elevata criticità. Attualmente Advisor dell’Ispettore Generale della Rwanda National Police, in precedenza ha tra l’altro lavorato per formare i vertici delle locali forze dell’ordine a Mogadiscio (Somalia) e ad Accra (Ghana).

Leggo su alcuni media internazionali, anche italiani, che il famigerato COVID sarebbe in procinto di attanagliare in una morsa mortale l’intero continente africano. L’aspetto più curioso appare rappresentato dalla consueta superficialità di questi “esperti”, che neppure si sono degnati di acquisire dati facilmente reperibili dalle fonti ufficiali.

In controtendenza posso affermare che non corrisponde al vero che nell’Africa subsahariana il COVID si stia diffondendo con la rapidità europea. Con amarezza, ma non con sorpresa, sul continente africano – per molti una nebulosa di difficile comprensione – si affermano e si scrivono profonde inesattezze. Certamente nei Paesi africani con maggiore presenza di scambi commerciali internazionali, e con una percentuale elevata di popolazione stabile di origine europea, il virus si sta diffondendo. Questo è il motivo dei numeri in Sudafrica aggiornati al 31 marzo, 1.326, su una popolazione però di circa 60 milioni di abitanti. Numeri, se ci pensiamo solo un attimo, irrisori, se solo guardiamo le percentuali dei Paesi occidentali. La situazione, al momento, non appare grave sia per il numero dei contagi e sia sopratutto per la virulenza dello stesso.

Non è neppure vero che solo ora nell’Africa subsahariana sia stato deciso di adottare misure draconiane simili a quelle italiane. Qui in Rwanda, ad esempio, il blocco di tutte le attività e l’obbligo di “stare a casa” è in vigore da oltre dieci giorni.

Sarebbe importante far conoscere gli sforzi che stanno facendo, in silenzio, questi Paesi per arginare la minaccia, creando dal nulla strutture sanitarie e cercando in tutti i modi di divulgare da tempo con ogni mezzo – in primis la radio, la televisione e i social media – il rischio rappresentato da una pandemia del genere.

In tale quadro non bisogna sottacere le reali criticità che sono rappresentate dai seguenti fattori, comuni anche durante il periodo dell’ebola (ma ciò non interessava realmente) e durante le diverse pandemie che da anni caratterizzano questa complessa realtà.

Primo elemento da valutare è la carenza di medicinali, problematica endemica e ben conosciuta. A seguito di incontro recente con medici dell’ospedale militare, primo nosocomio ruandese dedicato al COVID, ho appreso che normalmente i medicinali cosiddetti “salva vita” sono tenuti in una cassaforte al pronto soccorso, per evitare che possano essere trafugati, e i farmaci vengono elargiti in relazione ai giorni di bisogno.

In secondo luogo bisogna fare i conti con la carenza di strutture sanitarie dedicate alla terapia intensiva. In merito, tuttavia, è utile segnalare che in Rwanda nessuna delle 70 persone trovate positive, al momento, necessita di tali cure.

Terzo punto è la capacità di controllo delle vaste aree rurali dove il blocco delle attività determina e sta determinando con immediatezza carenze alimentari per le fasce più deboli delle popolazioni.

In tale contesto, inoltre, mi permetto di evidenziare che la percentuale della popolazione africana sopra i 60 anni di età è di gran lunga inferiore a quella della popolazione europea, con conseguenze positive sulla capacità delle popolazioni africane, per lo più giovani, di rispondere con efficacia alla virulenza del COVID.

Altro elemento da non sottovalutare è rappresentato dal patrimonio culturale africano, sempre alla ricerca di una visione della vita immersa e in comunione con la natura. Tale visione determina nell’animo delle persone una sostanziale assenza di panico, proprio perché la vita e la morte sono considerate e vissute come parte del ciclo naturale.

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