ECONOMIA

Questa Europa è morta

Esattamente come una famiglia o un’impresa, una collettività non può e non deve basarsi solo sui soldi e sulla loro gestione, perché verrebbe meno qualunque principio di comunanza sociale

Oltre sedici anni fa – quando la moneta unica era ancora ai suoi primissimi passi e si nutrivano grandi speranze sulla crescita del Vecchio Continente come collettività – il noto futurologo Jeremy Rifkin scrisse uno splendido libro, intitolato “Il sogno Europeo”. In esso si analizzavano con entusiasmo le prospettive non solo economiche, ma anche umane, della comunità cui apparteniamo, contrapponendola con la realtà americana. Nella visione ottimistica di Rifkin, l’Europa sarebbe stato entro pochi anni un laboratorio politico ed umano dove alla logica del “lavorare di più, ma ottenere sempre di meno“ statunitense si sarebbe contrapposto un modello fatto di “sviluppo sostenibile, integrazione tra persone e natura e responsabilità collettiva“.

A quasi due decenni dall’integrazione delle nostre monete, noi europei dobbiamo probabilmente dichiarare che quella visione utopica è morta. Come in una qualunque collettività in formazione, e come gli esperti di change management ben sanno, abbiamo passato i primi anni a fare “storming“, vale a dire a definire le nostre regole interne di funzionamento. Lo abbiamo fatto appoggiandoci, per una serie di varie circostanze e condizioni, a quelli che erano percepiti come leader, su tutti Francia, Germania e Inghilterra. La leadership riconosciuta dagli altri a questi paesi aveva il suo fondamento sui presupposti iniziali dell’Unione: una costruzione innanzitutto economica e monetaria, che consentisse al Vecchio Continente di competere alla pari con i giganti americano e cinese. Giocoforza, quindi, i leader nel disegno delle regole sono stati coloro i quali avevano fattivamente dimostrato di essere i migliori a gestire l’economia interna, e dunque i più credibili per dettare le linee di indirizzo per la collettività.

Sulla base delle premesse, le diverse economie sono state sforzate per vent’anni, forse al di là delle proprie oggettive capacità, nella direzione della messa a posto dei conti finanziari. Un obiettivo serio, doveroso ed irrinunciabile, così come il buon funzionamento di una famiglia o di una azienda si poggia su solide fondamenta economiche.

Ma esattamente come una famiglia o un’impresa, una collettività non può e non deve basarsi solo sui soldi e sulla loro gestione. Se noi avallassimo questa visione, verrebbe meno qualunque principio di comunanza sociale. Estremizzando le conseguenze di quest’ultima, non dovremmo quindi investire sui figli o sui giovani lavoratori, se non in ragione della loro capacità di contribuire all’economia; e dovremmo dare il sostentamento minimo agli uni e agli altri. E addirittura dovremmo applicare misure draconiane ai nostri anziani genitori o ai lavoratori non più in grado di produrre, poiché essi non apportano più reddito economico.

Una famiglia che sia sana, un’azienda che voglia essere duratura, una collettività che voglia definirsi tale, deve invece essere basata su valori innanzitutto umani, sul principio di solidarietà personale e sociale, sulla difesa degli ultimi e dei meno fortunati, e soprattutto sull’aiuto reciproco in momenti di difficoltà. Oltre ad essere un comportamento da esseri umani decenti, questo è in primo luogo un interesse primario di qualunque società. Come dice un vecchio adagio aziendale, “toglieteci tutto, ma lasciateci i nostri uomini e le nostre donne e ricostruiremo tutto da zero“. E quale lavoratore sarebbe disposto a sacrificarsi per la propria azienda oltre il proprio stretto dovere, se fosse consapevole di non poter contare sul suo aiuto in un momento di difficoltà? E quale Stato membro di una collettività potrebbe essere disposto un domani a dare ascolto o a fare sacrifici dettati da chi in un momento di tragica necessità come l’attuale lo avesse lasciato da solo?

Gli ultimi giorni stanno mostrando per la prima volta un fronte diverso di consenso all’interno della Comunità Europea rispetto a quello tradizionale. La minaccia che stiamo affrontando scuote dalle fondamenta le società nazionali e ne mette in pericolo l’esistenza sia da un punto di vista umano, che da quello economico. Alcune posizioni rigoriste ed egoistiche degli scorsi anni non solo non sono più accettabili, e costituiscono una minaccia diretta alla stessa esistenza dell’Unione, o quanto meno dell’Unione in questa forma.

Le radici dell’Europa, è bene ricordarselo, non affondano in un comune humus di denaro e scambi commerciali. Affondano invece nella terribile consapevolezza che se vogliamo salvarci dai conflitti che hanno funestato per secoli le nostre nazioni, e dalle mostruosità del Novecento, noi europei dobbiamo innanzitutto sviluppare il nostro senso di umana solidarietà ed interdipendenza. Questo si fa, probabilmente, dichiarando ad alta voce che l’Europa basata unicamente sulla moneta e sull’economia è morta, e che sia invece necessario costruirne un’altra che abbia alla sua base i valori umani che ci accomunano.

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