
L’ultimo rapporto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO) riporta che la pandemia si è ormai diffusa su tutti i continenti e che il numero confermato di casi ha superato le 200.000 persone. Inoltre ci dice che ci sono voluti più di tre mesi per raggiungere i 100.000 casi confermati, ma solo 12 giorni per raggiungere i successivi 100.000.
Nei giorni scorsi avevamo assistito a risposte asimmetriche verso la minaccia del coronavirus da parte dei grandi Paesi occidentali, passando da modalità di negazione totale del problema (è una semplice influenza) a interventi parziali a macchia di leopardo. Oggi assistiamo ad un’attuazione di misure da parte di tutti che vanno verso una unica direzione: il confinamento.
Il presidente francese Macron nel suo discorso alla nazione ha usato per ben tre volte la parola “guerra”. Ha detto: “siamo in guerra”. Ed è questo il sentimento che, anche se non sempre chiaramente esplicitato, permea le azioni ed i sentimenti dei cittadini i quali accettano di buon grado misure che solo in uno stato di guerra possono essere contemplate: essere confinati a casa in una sorta di coprifuoco, sospendere le attività economiche, modificare la produzione industriale in funzione di alcune specifiche necessità, sono tutte misure proprie di uno stato di guerra. E la guerra la fanno gli Stati, non i privati.
Joseph Stiglitz in suo recente articolo apparso sulla rivista “Internazionale” sottolinea come in una situazione di crisi come quella attuale ci si rivolge allo Stato come unica entità in grado di aiutarci. Dice Stiglitz:”Sfortunatamente, dai tempi dell’amministrazione Reagan, domina il motto: ” Lo Stato non è la soluzione al nostro problema, lo Stato è il problema”. Questi sono i fondamenti della dottrina di Friedrich von Hayek e del suo più illustre seguace Milton Friedman che a partire dagli anni Settanta hanno di fatto soppiantato quelli di John Maynard Keynes. Ed il mondo nel quale abbiamo vissuto fino ad ora ha visto una costante e possente erosione dell’intervento statale in tutti i settori economici e sociali. Riduzione del welfare, taglio delle pensioni, precarizzazione del lavoro (a tutti i livelli, medici e ricercatori inclusi), tagli alla sanità pubblica a favore dello sviluppo di quella privata. Super poteri alle corporations ed alle grandi banche. La sottomissione della politica alla finanza e la riduzione via via maggiore del potere dello Stato sulle politiche di crescita e sviluppo dei Paesi. Con le debite eccezioni e sfumature diverse, questo è il panorama attuale del mondo globalizzato.
Ma ora siamo in guerra. La distinzione pre e post 11 settembre impallidisce rispetto a quella che diventerà il pre e post COVID-19. Però questa è una guerra strana. Una guerra nella quale non si chiedono agli eserciti di scendere in campo, ma di stare a casa. Non si chiede alle industrie di riconvertirsi per la produzione di aerei, carri armati, portaerei, ma gli si chiede di fermarsi. La paura certamente c’è. La paura di ammalarsi, di perdere il lavoro, di non avere più alcun sostentamento per mandare avanti la famiglia. La paura che una volta sconfitto il virus, rimarranno solo macerie e che economicamente sopravviveranno in pochi. Perché interventi asimmetrici favoriranno alcuni e non aiuteranno altri. Siano essi Stati, industrie o famiglie. Questa è la grande paura che serpeggia. Perché io no e lui si?
Perchè Flybe ha chiuso i battenti lasciando per strada 3.000 dipendenti e 80 aeroplani ed adesso assistiamo ad una corsa agli aiuti governativi da parte di quasi tutte le compagnie aeree? Ad Air Italy è successo la stessa cosa. Il governo italiano ha stanziato aiuti per il trasporto aereo, ma Air Italy non sembra poterne usufruirne ed i suoi aerei rimarranno a terra. Asimmetria di intervento. C’è da dire che le crisi delle due compagnie avevano radici lontane e particolari, ma in ogni caso rappresentano in UK ed in Italia due casi emblematici.
Ma allora che fare? Come vincere questa guerra? Come evitare interventi asimmetrici che lascerebbero morti e feriti sul campo non più in grado di rialzarsi?
Con la Seconda Guerra Mondiale ancora in corso, dal 1 al 22 luglio del 1944, 730 delegati di 44 paesi si riunirono presso il Mount Washington Hotel di Bretton Woods, nel New Hampshire sotto l’attenta regia di Dexter White (USA) e John Maynard Keynes (UK). Ed è in quella sede che venne raggiunto un accordo storico che ha regolato la vita ed i destini degli Stati per i successivi 30 anni, almeno fino a quando Nixon terminò l’epoca, appunto sancita da questi accordi, del “Gold standard”. Cioè la parità del dollaro con le riserve auree di Fort Knox. La necessità dovute alla guerra del Vietnam, costrinsero gli Stati Uniti a stampare dollari in gran quantità e di fatto a non rispettare l’equivalenza oro-dollaro stabilita a Bretton Woods. Tra i primi ad accorgersi del “trucco” Americano fu il presidente francese Charles de Gaulle, che inviò una corazzata carica di dollari davanti alle coste di Washington, pretendendone la conversione in oro. Poco dopo Nixon fece lo storico annuncio. Ma in ogni caso quell’accordo consentì al mondo di rialzarsi dalle macerie prodotte dalla guerra e di garantire uno sviluppo reale delle economie .
Oggi ci vorrebbe una nuova Bretton Woods. Sarebbe necessario ristabilire i rapporti di forza tra finanza e politica. Tra Stati e corporation. Tra chi decide quali siano le priorità sulle quali basare le politiche economiche e finanziarie e chi le attua.
Come riportato dal Sole24Ore del 19 marzo a firma di Beda Romano, in queste ore si sta negoziando a Bruxelles come “trovare un giusto equilibrio tra l’obiettivo di aiutare l’economia a reggere la forza d’urto provocata dalla pandemia influenzale e il desiderio di evitare una nuova deriva incontrollata dei conti pubblici. Nel contempo ,bisogna calibrare anche il percorso di rientro da debito…”.
Ed ancora, sempre dal Sole24Ore del 19 marzo a firma di Roberto Sambuco: “Oggi la risposta europea si sta rivelando drammaticamente inadeguata. Quando siamo costretti ad interpretare le virgole del comunicato della Commissione europea per capire se il patto di stabilità sia stato sospeso o meno significa che la risposta è stata inadeguata.”
Le risposte attualmente in campo sono ancora misure “convenzionali”. Non ci sono proposte economiche sul tavolo che somiglino a quelle attuate in passato in tempo di guerra. Perché per farlo occorre un’unità di intenti, o almeno una grande convergenza, su come voltare pagina, e soccorrere chi in questa crisi sta perdendo tutto. Una nuova Bretton Woods per poter concordare operazioni come la cancellazione del debito, che se avanzata fuori da un contesto di accordo globale potrebbe apparire come una proposta oscena e populista. Il 27 febbraio 1953 fu siglato a Londra un accordo che cancellava la metà del debito tedesco: 15 miliardi su un totale di 30. E la Germania tornò a crescere e prosperare. Vito Lops in suo articolo di qualche tempo fa parla ampiamente dei tecnicismi che possono portare alla cancellazione del debito di uno Stato. In letteratura economica si trovano pagine e pagine su come trattare il debito di “moneta”, “le riserve delle banche centrali” ed il “debito del tesoro”. Le soluzioni ci sono. Manca la volontà di metterle in campo.
Questa è una strana guerra. Difficile prevedere quando avrà termine l’emergenza sanitaria, anche perché i teatri sui quali si combatte cambiano; oggi un’aerea potrebbe essere senza più contagi, ma quella immediatamente vicina potrebbe essere ancora altamente infetta. In tal modo le frontiere tra Paesi potrebbero dover rimanere chiuse per molto tempo e la circolazione di persone e beni impossibile.
Occorre dunque prendere atto che ci troviamo di fronte ad una realtà che richiede il cambiamento radicale di tutto ciò che abbiamo fino ad ora considerato come “lo standard”. Oggi non lo è più.