ECONOMIA

Chiamami Pandemic, sarò il tuo bond

11% di rendimento, 70% di sottoscrittori europei. Fanno bene a chi li possiede. Un pò meno a coloro cui sono destinati

Scattano il 24 marzo le lunghe e complicate clausole che regolano i  pandemic bonds: 320 milioni di dollari che i sottoscrittori europei (70% del totale) rischiano di perdere per una manciata di giorni. In teoria servono per finanziare le spese della Banca Mondiale per interventi in casi di emergenza. Non fanno male a chi li possiede, ma non fanno bene a coloro cui sono destinati. Per il coronavirus la Banca Mondiale, da queste obbligazioni,  può ottenere al massimo 196 milioni da dividere tra 67 nazioni povere. Sono 8 cent ad abitante. Il costo del bond, tra interessi e commissioni, è di circa 150 milioni di dollari, soldi prelevati dai fondi che servono ad aiutare i Paesi poveri (stime di Olga Jonas, ricercatrice di Harvard ed ex macroeconomista della Banca Mondiale). Forse usciranno di scena, senza gloria,  proprio a causa del coronavirus accusati di aver ritardato (notizia non corrispondente a verità) la dichiarazione di pandemia da parte della Organizzazione Mondiale della Sanità. 

Il nome non è attrattivo, ma  il bond è altamente remunerativo: quando la Banca Mondiale li lanciò i pandemic bond nel 2017 aveva in mente non tanto di far  scommettere sulle pandemie, quanto di finanziare  suppletivamente e rapidamente se stessa in caso di epidemia, affidando al Pandemic Emergency Financing Facility (Pef) il compito di gestire  strumenti di cassa “pronti” e assicurazioni per  garantire alla Banca Mondiale fondi aggiuntivi (oltre a quelli che gestisce attraverso l’International Development Association). 

I primi e unici due pandemic bond della Banca Mondiale sono stati emessi il 28 giugno del 2017 tramite la Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo, per un incasso totale di 320 milioni di dollari tramite  due obbligazioni con  rendimenti, rispettivamente, del 6.5% e dell’11%. Entrambe le obbligazioni scadono il 15 luglio 2020. 

Gli alti rendimenti di queste obbligazioni sono paragonabili a quelli di strumenti finanziari ad alto tasso di rischio: nel caso dei pandemic bonds  il rischio  è quello di perdere anche l’intero capitale investito nel caso si verifichi una pandemia. 

Nel  2018, quando la diffusione dell’Ebola in Congo uccise più di 2mila persone, sembrava che questi bond non sarebbero più stati rimborsati. Il rimborso invece ci fu, perché per tutte le pandemie globali o regionali le regole indicate nel prospetto prevedono la presenza di almeno 20 morti in un secondo Paese oltre quello di origine. Fortunatamente, se così si può dire,  le vittime furono tutte in Congo e “solo” 4 in Uganda.

I criteri per definire le condizioni di riscossione o meglio  il cosiddetto trigger che fa scattare il mancato pagamento, sono descritti in una voluminosa appendice di diverse decine e decine di pagine, perchè l’obbligazione si fonda su derivati ad alto rischio e per ogni malattia il coefficiente di rischio deve essere minuziosamente descritto. Nel caso di virus di tipo “coronavirus”, per il bond meno rischioso la perdita può arrivare al massimo al 16,67% del capitale, per quello più rischioso fino al 100%. Per il bond meno rischioso il criterio principale è la presenza di almeno 2.500 vittime nelle prime 12 settimane da quando la diffusione del virus è stata comunicata all’Oms (data che scatta il 23 marzo per il Covid-2019). Per quello più rischioso è prevista la perdita del 100% del capitale. Per capire se questo avverrà bisogna attendere il 24 marzo, cioè il termine delle 12 settimane dalla dichiarazione di avvio dell’epidemia di coronavirus, che l’OMS ha fissato al 31 dicembre 2019, nonostante le dichiarazioni ufficiali del Governo cinese che anticipano di molto l’insorgenza del contagio. Adesso le obbligazioni catastrofali finiranno sotto la lente di ingrandimento di una società di Boston che dovrà pronunciarsi circa la rimborsabilità o meno delle obbligazioni e c’è la possibilità che anche stavolta qualche “clausola” del prospetto protegga  gli investitori a dispetto della  diffusione del coronavirus (presente in 110 paesi, più di 115 mila contagi certificati dalla stessa OMS). 

Gli investitori probabilmente si stanno rassegnando e sul mercato dei derivati i “pandemic”  stanno precipitando. Se saranno attivati i trigger, la Pef non dovrà rimborsali e resteranno risorse aggiuntive per ulteriore assistenza. Ma anche in questo caso non verrà affatto cancellata l’impressione che gli strumenti asseverati dalla Banca Mondiale  non servano affatto ad aiutare i Paesi poveri in caso di epidemia.

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