CITTADINI & UTENTI

Il lavoro è smart, ma l’Italia è stupida e l’Europa pure

Questi giorni che hanno visto l’estensione della zona rossa dalle aree di contagio primario in Lombardia al resto dell’Italia hanno evidenziato un fenomeno piuttosto interessante. La maggior parte degli uffici pubblici e privati si sono svuotati, ed apparentemente tutte le attività si sono fermate.

È certamente così per tutti quanti siano coinvolti in attività produttive che siano connesse con la fabbricazione, la distribuzione e la vendita di oggetti materiali. Questi soggetti economici saranno quelli che maggiormente soffriranno da un punto di vista economico e che dovranno essere più di tutti sostenuti dallo Stato una volta che l’emergenza sarà passata.

Tuttavia, sotto l’apparente immobilità generale, c’è una parte del Paese che vibra e si muove, continuando la propria attività in modalità differente dal solito. Si tratta di tutte quelle aziende che fanno della creazione di idee, di documenti certificativi, o di oggetti di conoscenza, la propria ragione d’essere.

Il comune dove vivo, che per la verità è stato sempre all’avanguardia per quanto riguarda la digitalizzazione della Pubblica Amministrazione, ha spedito prontamente i suoi lavoratori in smart working, e tutto prosegue esattamente come prima. Alcune attività fisiche, come ad esempio la celebrazione di matrimoni, o di funerali sono ovviamente ferme, ma la macchina amministrativa continua a funzionare nelle sue forme essenziali. Anche nel settore privato molte aziende – anche se diverse multinazionali sono andate in questa direzione già da qualche tempo – hanno lasciato a casa i propri dipendenti, i quali continuano serenamente a lavorare dal proprio salotto di casa.

E qual è quindi il profilo perfetto di uno smart worker?

Innanzitutto, un cittadino che abbia accesso dal proprio domicilio ad una rete Internet di velocità sufficiente a garantire la quasi-presenza. Con questo intendiamo fondamentalmente l’essere in grado di accedere ad uno qualsiasi dei moderni strumenti di videoconferenza (ad esempio Skype, Zoom, Google Hangouts etc.) che ci consentano di parlare e di essere visti da altre persone. Questo soddisfa il requisito di base della necessità di vedersi di persona: scambiare informazioni ed essere “percepiti” nella nostra interezza individuale sia attraverso il registro verbale, che quello non verbale.

In secondo luogo, uno smart worker è un cittadino che abbia come focus della propria attività lavorativa la produzione di risultati concreti e misurabili, ma immateriali. Questo vuol dire essere impegnati nell’ideazione, nella progettazione, nella condivisione di documenti, presentazioni, creatività, e qualunque altra cosa che, realizzata al computer, non ne esca mai e svolga nel mondo digitale la sua intera funzione, o che al massimo si presti ad essere presentata e condivisa verbalmente secondo le logiche di cui sopra. Queste due sole condizioni sono la dotazione funzionale necessaria e sufficiente per abilitare un individuo a lavorare da remoto in condizioni sovrapponibili a quelle che conosce in azienda. Nel mondo moderno non ha più alcun senso avere persone che viaggiano avanti e indietro – magari accompagnate dal proprio portatile – per sedersi e lavorare in isolamento davanti ad un computer, o magari interagendo con colleghi sparsi su altre sedi aziendali nel mondo!

La maggiore opposizione a questo tipo di modello è probabilmente la minaccia posta a tutti i ruoli la cui funzione prevalente sia quella di controllare l’esecuzione del lavoro. Dal punto di vista strettamente funzionale, questo compito può essere infatti svolto da strumenti informatici di misura della prestazione. Esistono numerosi programmi che permettono di assegnare compiti ed obiettivi, legarli ad un tempo di realizzazione e lasciare al lavoratore la responsabilità di realizzarli.

Questo approccio non richiede un intervento umano fisico, e certamente ci porterà, una volta implementato, in un mondo dove il middle management tenderà a sparire ed il livello di collaborazione tra coloro che effettivamente producono risultati tenderà ad aumentare e ad essere valutato più oggettivamente. Ci porterà anche probabilmente verso un modello veramente meritocratico, in cui la consistenza nella produzione di risultati avrà molto più peso nelle progressioni di carriera e di retribuzione rispetto a quanto possa fare la capacità di fare “politica” in azienda. In buona sostanza, gli strumenti per l’evoluzione del modello di lavoro verso una realtà da XXI secolo e non da fabbrica del XIX secolo sono già tutti disponibili. Ciò che tuttavia ancora manca è un solido impianto normativo e culturale che consenta di andare in questa direzione.

Personalmente, non credo che l’impianto culturale mancherà ai knowledge workers dopo questa crisi. L’isolamento forzato di questi giorni e il poter continuare comunque a lavorare, mostra in maniera lampante quanto da un punto di vista pratico tutto questo sia fattibile.

Ciò che ancora manca probabilmente è un intelligente presa d’atto da parte del governo del Paese delle opportunità nascoste in questa crisi. Problemi come l’inquinamento atmosferico da autoveicoli, la congestione delle città, l’emigrazione campagna-città e Sud-Nord possono essere risolte semplicemente imponendo – e non concedendo – la trasformazione in smart working di tutti quegli impieghi che ricadano nelle due condizioni che ricordavamo.

Questo, beninteso, a parità di retribuzione: l’andare fisicamente in ufficio in un mondo digitale non apporta alcun valore aggiunto agli oggetti (digitali) da produrre, ed è solo un costo per gli individui e la società. Non c’è quindi alcuna ragione per la quale un lavoro svolto in ufficio debba essere retribuito meno dello stesso lavoro svolto da casa. Dobbiamo dire che una volta tanto, l’Italia non è sola in questo genere di arretratezza normativa e culturale. Anche l’Europa ha leggi ed abitudini a macchia di leopardo, e perfino negli avanzati Stati Uniti c’è voluto un Tim Cook, CEO di Apple, per imporre ai propri dipendenti di lavorare lontano dal proprio headquarter spaziale.

Con le crisi si selezionano le cose veramente importanti: si gettano via le vecchie abitudini e i fronzoli inutili e ci si concentra sull’essenziale. Ci auguriamo fortissimamente di vedere emergere dai giorni del coronavirus un’Italia più intelligente e competitiva su ciò che conta davvero.

Back to top button