
Un giovane agente in servizio presso la casa circondariale di Vicenza, risultato affetto da coronavirus, aveva portato alla ribalta il tema delle carceri in tempo di contagio. In carcere, il virus ha basse possibilità di entrare; una volta dentro, ha altissime probabilità di proliferare e infettare tutto e tutti. Le misure per gestire l’emergenza epidemiologica hanno nelle carceri italiane uno dei fronti più problematici di applicazione: non sul versante delle visite dei familiari, dei permessi premio, della semilibertà, ma su quello epidemiologico vero e proprio.
Ora, il contagio psicologico ha coinvolto tutte le carceri italiane, con i loro 61.174 detenuti (dati ufficiali del 30 novembre 2019) e quasi 28 mila agenti.
Il Decreto del Governo in relazione alle carceri prevedeva qualcosa di specifico? Si.
Nelle “misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19”, pubblicate nella Gazzetta Ufficiale n. 45 del 23 febbraio 2020, poi aggiornate a Marzo, veniva così previsto: “Le articolazioni territoriali del Servizio sanitario nazionale assicurano al Ministero della giustizia idoneo supporto per il contenimento della diffusione del contagio del Covid-19”.
Le misure introdotte dal Provveditorato penitenziario lo scorso febbraio, con effetto immediato, comprendevano le seguenti azioni:
– Esonero dal servizio, fino a nuove disposizioni, per “tutti gli operatori penitenziari residenti o comunque dimoranti nei Comuni di Codogno, Castiglione d’Adda, Casalpusterlengo, Fombio, Maleo, Somaglia, Bertonico, Terranova dei Passerini, Castelgerundo e San Fiorano”.
– Divieto di accedere agli istituti penitenziari anche per il personale esterno, gli insegnanti, i volontari e i familiari di detenuti che provengano da quei Comuni.
– Sospensione del trasferimento dei detenuti verso e dagli istituti penitenziari rientranti nella competenza dei Provveditorati di Torino, Milano, Padova, Bologna e Firenze.
Mauro Palma, il Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, in una nota ufficiale datata 3 marzo, ha scritto:
“Da più parti vengono segnalate restrizioni ingiustificate che incidono anche sui diritti delle persone ristrette che sembrano essere il frutto di un irragionevole allarmismo che retroagisce determinando un allarme sempre crescente, che non trova fondamento né giustificazione sul piano dell’efficacia delle misure. Non sembrano essere stati assunti come primi urgenti provvedimenti proprio negli Istituti che maggiormente hanno rivolto l’attenzione alla mera chiusura degli esterni, misure relative alla sanificazione degli ambienti, alla diffusione di norme igieniche, all’autodichiarazione di non avere avuto contatti possibilmente a rischio da parte del personale che entra in Istituto, alla predisposizione di strumenti che possano rilevare la temperatura corporea di tutte le persone che, per qualsiasi ragione, entrano nell’Istituto stesso. In assenza di tali misure, la fisionomia della prevenzione potrebbe essere vista come maggiormente rivolta a evitare il rischio di futura responsabilità che non effettivamente a evitare un contagio certamente molto problematico in ambienti collettivi chiusi”.
Ma l’aver configurato il mondo recluso come un luogo separato e separabile non ha funzionato. Mentre ora funzionano tentativi di evasione, evasioni, incendi, morti e feriti.
Le carceri sono facilmente presidiabili all’esterno da forze dell’ordine. Non sono presidiabili dall’interno in caso di contagio. Prima di parlare di scarcerazione, occorre parlare di triage, tende-ospedali esterne, servizi di trasferimento e cura. Perché in assenza di tutto questo, le restrizioni nelle visite e l’abolizione di alcuni istituti premiali possono essere più contagiosi ancora del coronavirus.