
L’impatto dell’epidemia di coronavirus sul settore fieristico europeo richiede un rapido sostegno a livello nazionale e a livello europeo. Il sistema fieristico è il primo comparto tramortito sulle barricate economiche causate dal virus.
Per questo l’Emeca (European Major Centres Association) e l’Eeia (European Exhibition Industry Alliance) hanno rotto gli indugi e si sono rivolti oggi pomeriggio direttamente al Presidente della Commissione Europea. E’ da tener d’occhio questa vicenda: essa rappresenta il primo momento di coesione europea in tempo di Coronavirus dal momento che quello fieristico ha patito da subito, simultaneamente, gli effetti del virus, costringendo tutti i quartieri ad abbassare le saracinesche e discutere ( prima) e cercare di trovare (poi) una exit strategy che mettesse al bando il fai-da-te o peggio il tutti-contro-tutti. Inoltre le fiere europee sono state le prime a riconoscere la necessità di un affronto unitario del Coronavirus, nella consapevolezza che un affronto per nulla sincronico dell’epidemia avrebbe paralizzato a turno e per mesi i quartieri, bloccando il mercato fieristico anche nel secondo semestre dell’anno. I grandi saloni tedeschi sono stati spostati al 2021 (è il caso del Prowein di Düsseldorf) oppure semplicemente cancellati e (provvisoriamente) programmati nella seconda metà dell’anno (ma per spostare fiere non basta aver sott’occhio un calendario). Così Milano, Verona, Bologna. Prima di parlare dei grandi player nazionali, conviene ricordare che anche i gioielli dell’agro-alimentare ( un nome su tutti, Cibus) hanno chiuso le edizioni programmate rinviando l’appuntamento.
Il contagio del coronavirus ha creato una situazione complessa e ha avuto un impatto dirompente sul settore fieristico. Inizialmente, le principali conseguenze sono state avvertite direttamente in Asia, ma ora sono più di 220 le fiere in Europa sottoposte a revisione.
Il business generato da aziende che espongono in Europa è pari a 39 miliardi di euro al trimestre ( valore contenuto nella lettera indirizzata alla Von Der Leyen).
Le perdite economiche attuali in Europa sfiorano i 6 miliardi di euro (5,8 secondo le stime Eeia) con 51.400 posti di lavoro a rischio. Il settore fieristico europeo è il leader mondiale in termini di capacità, qualità e fatturato delle sedi espositive. Rappresenta poco meno della metà della quota di mercato globale del settore fieristico e ospita la maggior parte delle principali fiere internazionali B2B e B2C. Offrono un numero massimo di opportunità commerciali in un unico posto, consentendo alle aziende dell’UE di evitare di viaggiare fuori dall’UE per incontrare potenziali partner commerciali e clienti. Ma il danno causato e momentaneamente stimato in quasi 6 miliardi è certamente molto più elevato perché non tiene conto dell’impatto economico aggiuntivo generato dalle sedi espositive che va moltiplicato per 10. Ogni euro dentro la fiera ne genera 10 fuori dai padiglioni.
Se portiamo l’attenzione al nostro Paese, va osservato che per le PMI che ne costituiscono il tessuto produttivo fondamentale le cancellazioni o i rinvii delle esposizioni hanno un impatto immediato: ritardano le attività commerciali e le entrate programmate che derivano dall’avere un interlocutore fieristico che risolve per esse la presenza sui mercati esteri a cui non potrebbero far fronte direttamente. Le PMI sono la spina dorsale dell’economia italiana ( ma anche europea) e devono essere trattate con elevata rilevanza dal governo e dalle istituzioni degli Stati membri. Come uscirne? Certamente chiedendo alle istituzioni dell’Unione europea un approccio coordinato in tutti gli Stati membri per offrire la stessa serie di rimedi di emergenza alle imprese fieristiche coinvolte. Ma intanto è evidente che gli sforzi organizzativi già realizzati, ovvero gli investimenti fieristici, non rientreranno facilmente : serve liquidità e capitale circolante per la fase di transizione critica . Servono misure immediate di sostegno per le aziende che lavorano nei quartieri fieristici (falegnameria, arredi, audio, video, luci, arredi , connessioni, informatica, app e security) per evitare perdite di posti di lavoro che inevitabilmente impattano sulla qualità delle fiere europee (forse il più importante strumento di opposizione all’incipiente strapotere fieristico di marca asiatica). Ma a questo specifico tornante del discorso le considerazioni ripiegano in ambito nazionale, poiché ogni paese ha storia e produzioni che richiedono soluzioni su misura.
Non c’è bisogno di scomodare i tutorial di Oscar Farinetti (utilissimi) per comprendere, ad esempio, che l’agro-alimentare italiano rappresenta un unicum mondiale che nessuna Commissione europea avrà mai la forza di supportare e valorizzare adeguatamente se a questo non provvede direttamente e principalmente il cosiddetto Sistema-Italia. Mettere in sicurezza il Made in Italy ( in questo caso agro-alimentare) del Paese significa costringere i molti attori preposti (Ministero dell’Agricoltura, Ministero Affari esteri che avocato a sé il Made in Italy, Ministero Sviluppo economico, Ice, Invitalia, Simest e quant’altri) ad una chiara presa di posizione a sostegno delle principale fiere che portano nel mondo il Made in Italy e senza delle quali saremmo dannosamente condannati a vivere di mercato interno, costringendo migliaia di imprese dell’agro-alimentare ad abbassare le saracinesche assieme a quelle dei quartieri fieristici.
Vista da questa prospettiva, la sicurezza (agroalimentare) del mercato, la sicurezza della produzione (compresa la tracciabilità), la sicurezza del consumo, la sostenibilità produttiva (coerente con il Green Deal europeo), la cura del creato oltre e la cura dell’aratro e le mille altre cure necessarie non si sono attuate grazie a decreti e commi ma sono diventate pratiche diffuse nel Paese attraverso quell’enorme lavoro di confronto, divulgazione e formazione che il sistema fieristico ha assicurato al settore primario. Naturalmente basta togliere “primario” e scrivere “secondario” o “terziario”, il ragionamento sempre lo stesso è. Le fiere italiane di livello internazionale generano 60 miliardi di export l’anno e costituiscono una delle poche leve di commercio estero per il 75% delle piccole-medie imprese.
Qualcuno ha sentito ministri, direttori, presidenti avventurarsi in questi giorni in questi sentieri , con la volontà di dare impulso a coordinamento, sostegno, programmazione, incentivazione per mettere al sicuro quello che ad oggi sicuro non è più? In ballo c’è la carne e il sangue di decine di migliaia di imprese che nei nostri padiglioni fieristici più internazionali trovano mercato e riferimenti. Alla loro salvezza non basterà la risposta (quando ci sarà) della Von der Leyen. E prima che le fiere italiane vadano a piangere in ordine sparso sulla spalla di Conte, meglio avere contezza che oggi occorre salvare la valenza dei (soli) grandi saloni italiani, a comprovata vocazione internazionale, concentrando su di essi la responsabilità di far ripartire il Made in Italy nel mondo.