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Telelavoro alla carbonara. L’amministrazione pubblica tra fornelli e sofà

La nuova circolare sul telelavoro in tempo di Coronavirus, vergata dalla ministra Fabiana Dadone, prevede l’obbligo per le amministrazioni pubbliche di gestire il lavoro “agile”. Agile, cioè digitale. 

Il lavoro agile è previsto per tutti i dipendenti pubblici senza alcuna distinzione di categoria di inquadramento e di tipologia di rapporto di lavoro. Per lo svolgimento del lavoro agile, i dipendenti pubblici possono usare i Pc personali, se quelli dell’ufficio non sono disponibili o risultano insufficienti.  

La modalità di esecuzione del lavoro agile targato PA tramite dispositivi  privati e ad usum domestico è verosimilmente inverosimile e, laddove applicata, darà occupazione a tanti professionisti della sicurezza informatica, dopo che i professionisti delle incursioni informatiche avranno saccheggiato il  materiale più interessante. 

Il provvedimento non indietreggia di fronte a tale pericolo e cala il poker – con tono perentorio e declinato al futuro – della punizione: “Tutti i dirigenti delle PA che non si adeguano al nuovo obbligo potranno essere sanzionati”. Terribile.

La pubblica amministrazione affronta il Coronavirus con la disarmante sicurezza che nessuna sanzione futura potrà essere applicata allo stato di fatto irredimibilmente analogico in cui versa, nonostante abbia già ingoiato per spese ICT 5,5 miliardi, 85 euro per ogni cittadino.

Funzionerà la circolare della Dadone? 

Per rispondere alla domanda, partiamo dai  dati “neutri” certificati dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sul livello di digitalizzazione e innovazione della pubblica amministrazione e sugli investimenti nel settore delle tecnologie.

L’87% dei comuni prevede ancora dei procedimenti che hanno bisogno di apposizione di timbri, di firme autografe, di sigle a margine, di bollinature. 

La scarsa interoperabilità del fascicolo elettronico (solo nel 22% dei casi le PPAA coinvolte nel procedimento amministrativo possono direttamente consultare e alimentare il fascicolo) disarma i volonterosi e i più avanzati pubblici dipendenti.

Il problema, dicono e scrivono i commissari, sta nei piani alti della PA: è infatti negativa  la situazione del back-office, dove sopravvivono ancora  consuetudini e pratiche di tipo analogico e dove è più difficile realizzare quella trasformazione digitale per la solita assenza di competenze, in particolare nei ruoli apicali. 

La rivoluzione digitale nella PA non c’è stata perché non c’è mai stato un robusto impianto vincolante e sanzionatorio che la rendesse efficiente: i piani  delle performance nella PA non prevedono indicatori riferiti alla trasformazione digitale e i risparmi di costo, generati dall’utilizzo della ICT, non vengono quantificati e non vengono nemmeno reinvestiti nel fondo premialità dei dipendenti e neppure nell’assegnazione dei budget con relativa decurtazione in caso di conclamata inefficienza digitale. Niente di niente. 

Il Codice digitale della Pubblica amministrazione (CAD) ha 15 anni di vita, ma la sua efficacia è stata evirata all’atto stesso di nascita, perché disgiunto da qualsivoglia meccanismo vincolante, sanzionatorio e punitivo. Pretendere la trasformazione della PA chiamando i vertici della PA a realizzarne la mutazione è come chiedere ai re e alle regine – direbbe Max Weber- di provvedere alla riforma della monarchia.

Per questo la PA  ha realizzato, nel corso degli ultimi decenni, le migliori  innovazioni sul versante di front-office, lasciando inalterato l’apparato di back-office. Con il provvedimento Danone viene ora chiamato in causa il ritardo relativo al cuore della questione, laddove si esercita la capacità di contrattare adeguatamente con i fornitori, di progettare correttamente le soluzioni necessarie, di scrivere bandi di gara che selezionino il prodotto o il servizio più adeguato, di controllare efficacemente lo sviluppo e la realizzazione delle soluzioni informatiche e il coraggio di inserire in posizioni apicali non i gerontosauri del cartaceo, ma la nuova antropologia digitale. L’affaire Sogei, oppure il Sian in agricoltura, documentano ad abundantiam quanto stiamo scrivendo. 

Il lavoro agile della PA da casa andrà verosimilmente ad ingrossare l’attitudine del buon dipendente pubblico ad attingere a fonti di distrazione di massa: la Commissione di inchiesta di cui sopra aveva ottenuto da Tim una stima circa le voci di collegamento digitale più gettonate tra i dipendenti della PA: quella per i servizi di call center di compagnie telefoniche, banche e imprese di trasporti e “intrattenimento premium”, cioè “servizi interattivi” (spesso via sms) su notizie, oroscopi, giochi, informazione sportiva e servizi per adulti.  
Il fatto che le PPAA non abbiano bloccato negli anni l’uso di questi servizi è una indicazione chiara della mancanza di volontà/capacità di intervento.

Prevedere, all’interno delle convenzioni con i gestori di telefonia, il blocco automatico dei servizi aggiuntivi descritti per i contratti con la Pubblica Amministrazione non dovrebbe richiedere l’intervento di geni. Più complicata, e quindi questa sì geniale, la formulazione di un provvedimento di lavoro agile che non mortifichi tutto il lavoro fatto in termini di sicurezza e protezione dei dati. Nel lavoro da remoto dei dipendenti pubblici, introdotto in emergenza e per motivi sanitari, risulta del tutto sottovalutata e non pervenuta la questione “sicurezza”, indipendentemente dalla adozione di pc ministeriali o personali. Immaginiamo che quasi tutti i dipendenti pubblici abbiano a che fare con dati sensibili, a parte qualche magazziniere o addetto alle scorte di risme formato A4.

L’accesso da casa ai programmi PA avverrà certamente attraverso connessioni particolarmente esposte alle incursioni e al furto dei contenuti di tutte le informazioni sensibili che nessuna circolare è in grado di impedire. Il lavoro “agile” non si improvvisa: si programma e si infrastruttura. Imporlo in una legge contro il coronavirus non protegge dai virus.

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