
“Lei signora ha tosse/raffreddore/febbre/mal di gola? Se non ha questi sintomi, allora può entrare”. E’ la bizzarra domanda che mi sono sentita rivolgere, in questi giorni, entrando in uno studio professionale, da un’assistente che presidiava l’ingresso e che indossava uno scafandro e una mascherina. A parte l’imbarazzo iniziale di dover dichiarare pubblicamente il mio stato di salute, vista la presenza di altre persone, mi sono chiesta se, in nome dell’emergenza da Coronavirus, il diritto alla privacy fosse diventato improvvisamente un lontano ricordo.
Pare che questo approccio, un po’ invadente, sia molto più diffuso di quanto si possa pensare, tanto da indurre il Garante per la protezione dei dati personali a emanare un invito ad astenersi da iniziative “fai da te”, nella raccolta dei dati nell’ambito dell’emergenza sanitaria.
Il parere della dell’Autorità Garante è stato sollecitato da numerosi soggetti pubblici e privati che chiedevano di poter raccogliere, all’atto della registrazione di visitatori e utenti, informazioni circa la presenza di sintomi da Coronavirus e notizie sugli ultimi spostamenti, come misura di prevenzione dal contagio. Anche i datori di lavoro hanno chiesto di poter acquisire dai dipendenti una “autodichiarazione” attestante l’assenza di sintomi influenzali, e vicende relative alla sfera privata.
Il Garante ha chiarito che “i datori di lavoro devono astenersi dal raccogliere, a priori e in modo sistematico e generalizzato, anche attraverso specifiche richieste al singolo lavoratore o indagini non consentite, informazioni sulla presenza di eventuali sintomi influenzali del lavoratore e dei suoi contatti più stretti o comunque rientranti nella sfera extra lavorativa.
L’accertamento e la raccolta di informazioni relative ai sintomi tipici del Coronavirus e alle informazioni sui recenti spostamenti di ogni individuo spettano agli operatori sanitari e al sistema attivato dalla protezione civile, che sono gli organi deputati a garantire il rispetto delle regole di sanità pubblica recentemente adottate”.
Questo parere dovrebbe zittire anche chi sui social, in queste convulse giornate, chiede a gran voce la divulgazione dei nomi e cognomi delle persone contagiate.
Il diritto alla riservatezza di queste persone, dei loro famigliari e amici non può arretrare in nome del diritto della collettività ad essere informata.
Anche i giornali, in questo contesto, devono rispettare l’essenzialità dell’informazione. Divulgare i nomi dei contagiati ha come unica conseguenza quella di etichettarli irrimediabilmente come untori e isolarli dalla comunità, alimentando psicosi collettive ingiustificate. Il GDPR prevede che questi dati debbano essere tutelati e non divulgati. Lasciamo alle Autorità pubbliche la gestione della sicurezza e della tutela della salute, a loro il compito di tracciare la catena dei contagi e trattare informazioni così delicate.