
Appena concluso il Festival di Sanremo, l’attenzione dei media e dei social network si è immediatamente spostata dall’imperdibile diatriba tra Bugo e Morgan alle ansie di pandemia generate dalla diffusione del Covid-19. In tale contesto, ancora inebriati dall’esemplare risposta italiana nel fronteggiare la nuova minaccia, alcuni esperti del rischio si cimentavano in sofisticati rapporti sul pericolo di una catastrofica diffusione del virus nel disgraziato e impreparato continente africano.
Grazie a questi esperti, apprendevamo così che la diffusione del Covid-19 in Africa rappresenterebbe una gravissima minaccia, in quanto gran parte dei paesi, inclusi Etiopia e Uganda (per citarne solo alcuni), sarebbero altamente esposti al contagio cinese e scarsamente preparati per gestire una pandemia, a causa della loro vulnerabilità endemica alle malattie infettive e delle carenze dei propri sistemi sanitari. Una scoperta davvero sorprendente! Tuttavia, potremmo questa volta rimanere delusi non riuscendo per l’ennesima volta a provare, con le nostre statistiche orgogliosamente compilate in qualche ben arredato ufficio di una capitale europea, che tutti i grandi mali provengono dal Continente nero. Potremmo anche far rivoltare Mark Twain dalla tomba, costringendolo a ripetere la nota frase “Ci sono tre tipi di bugie: le bugie, le dannate bugie e le statistiche”. Citazione, questa, attribuita allo scrittore americano e solitamente usata dai ben pensanti per richiamare l’attenzione sul fatto che le mere statistiche, senza appropriata, certosina e onesta contestualizzazione, possono farci assopire nell’arroganza e confusione più profonde.
Prendiamo ad esempio l’Uganda, paese che l’italiano generico medio conosce solo per le imprese e per la frivola politica del fu dittatore Idi Amin Dada. Certo, uno può rimanere scioccato quando, recandosi in una clinica locale per un normale test anti-malarico, intravede qualche formica camminare sul tavolo dell’analista o dell’infermiere; ma le cose non stanno esattamente come noi siamo abituati a voler pensare. Al pari di altre nazioni africane, l’Uganda convive da anni con lo spettro di Ebola e di altre serie malattie infettive, e più di recente con un focolaio specifico e molto complesso di questa febbre emorragica localizzato al confine con la Repubblica Democratica del Congo. Per non citare il Colera e un nuovo focolaio di Febbre Gialla nel Nord-Ovest del paese. Eppure, la Perla dell’Africa continua a vivere e combattere contro queste piaghe, contenendole efficacemente. Tutto sommato, la sua economia, compreso il turismo, continua a svilupparsi e prosperare. L’OMS ha recentemente riconosciuto l’eccellenza dell’Uganda nel prevenire e contenere epidemie di Ebola. Riconoscimento che trova riscontro in una tradizione decennale di altri casi di eccellenza che hanno fatto scuola nell’ambito della comunità scientifica globale come quello del defunto Dottor Matthew Lukwiya.
Certa letteratura considera l’Africa alla stregua di un grande network di villaggi, un continente “paese” caratterizzato da grandi omogeneità, tuttavia certe generalizzazioni sul continente sono piuttosto approssimative. Diversi paesi Africani hanno risposto e stanno rispondendo all’allarme Covid-19 in modo fermo e per quanto possibile organizzato; senza clamore e facendo tesoro di molte lezioni apprese in passato. Molti di questi paesi soffrono di piaghe di altra natura, come la corruzione sistemica, la povertà e la carenza di infrastrutture. Ciononostante, di fronte a particolari minacce come una pandemia o il terrorismo sono spesso capaci di fare sistema e dimostrare una buona, se non eccezionale, resilienza (sì, proprio quella parola che da un po’ di tempo va di moda nelle nostre conferenze di alto livello strategico, talmente strategico che spesso ci dimentichiamo cosa veramente succede nei meandri più nascosti delle nostre organizzazioni).
Fin da subito, l’Uganda, ma anche l’Etiopia, hanno cercato di concentrare i propri sforzi sull’investigazione scrupolosa di qualsiasi fonte di focolaio Covid-19, implementando misure di screening ai porti d’ingresso senza fomentare il panico, e dotandosi dei necessari strumenti per la rivelazione del mostro biologico. Altre misure stanno ricalcando i modelli e protocolli di prontezza e di isolamento locale già utilizzati per fronteggiare altre crisi sanitarie regionali o nazionali. Il sistema di governance dell’Uganda si basa su cinque livelli di governo (LC1-Villaggio, LC2-Parish o comune, LC3-Sottocontea, LC4-Contea e LC5-Distretto). Se dal punto di vista della rappresentanza politica e governo locale questo sistema (local council system) conta poco e spesso non funziona, in ordine alla rilevazione di minacce esterne alla sicurezza e salute pubblica può funzionare molto bene. Come altre nazioni africane, l’Uganda ha imparato che il controllo e sensibilizzazione capillari delle comunità è uno strumento costo-efficace molto valido per prevenire e gestire certi rischi. Pochi sanno che, sulla scia dell’ondata di attività terroristica che colpì l’Uganda nel 2010, il sistema accennato ebbe un ruolo chiave per la ricerca, lo smantellamento ed il contrasto all’insediamento di cellule terroristiche di Al-Shabaab, affiliati e affini sul territorio nazionale; e ancora oggi rappresenta un efficace sistema di controllo delle comunità in tal senso.
Quanto appena detto, intendiamoci, non vuole essere un tentativo di far correlare l’attuale basso numero di casi confermati e dichiarati di Covid-19 in Africa a questa o quella capacità di risposta nazionale, oppure all’esperienza che alcuni paesi africani possono vantare in tema di malattie infettive. Se lo si legge, il rapporto Lancet é informativo e molto bilanciato. Discrimina tra diverse realtà di rischio e soprattutto pone enfasi sul fattore di diffusione legato ai flussi di collegamento e scambio tra varie regioni dell’Africa e quei paesi, come la Cina, inizialmente più fortemente colpiti dall’epidemia di Covid-19. Ma fino a qui, nulla di nuovo. Tutti sanno che l’Africa é popolata da anni da alcuni milioni di cinesi. Parimenti, non é difficile intuire quali siano i principali scali aerei di collegamento tra Africa e Asia. In quanto alle varie disgrazie del continente africano, si suppone che queste siano altrettanto note un po’ a tutti. Trattiamo pertanto il rapporto Lancet o altre ricerche simili per quello che sono, per la loro natura informativa, senza affondare il dito nella piaga o sparare a zero sull’incombente catastrofe epidemiologica africana. Il Covid-19, i suoi effetti social e dintorni sono un fenomeno nuovo per noi come per gli africani. Spesso sarebbe più saggio guardare prima in casa propria, considerando l’ipotesi di una pandemia come una grande sfida per l’umanità intera, piuttosto che preoccuparci in modo a volte superficiale delle sventure degli altri.
Dell’Uganda e dell’Etiopia probabilmente non interessa nulla a nessuno. Relativamente a quanto succederà nelle prossime settimane in Africa in riferimento al coronavirus, allo stato attuale si possono fare solamente speculazioni. C’è chi argomenta che, a parte i noti casi dell’Algeria, Egitto e Nigeria, Covid-19 non sia ancora presente in Africa per puro caso, o sia già arrivato in massa ma non sia ancora stato rilevato; che qualche nazione africana non sia propensa a dichiarare la diffusione del virus, o che per qualche motivo climatico l’Africa potrebbe alla fine anche risultarne immune. Solo speculazioni. Un punto fermo invece dovrebbe essere il fatto che una analisi del rischio è un esercizio estremamente serio, che richiede discernimento, cautela e conoscenza locale. Gli aspetti positivi e irrazionali vanno messi sul piatto della bilancia quanto quelli negativi, sempre ricordandosi che la previsione probabilistica spesso non funziona in riferimento a certe tipologie di rischio. I modelli quantitativi sono molto utili, ma solo qualora vengano soddisfatti determinati presupposti e condizioni. In certi contesti, utilizzare statistiche e modelli quantitativi per elucubrare e fomentare pericoli imminenti serve a farci belli, ma non serve nulla alla causa dell’umanità.