
L’epidemia in corso di coronavirus ha prodotto un generale rallentamento nelle attività mondiali, soprattutto nelle aree maggiormente colpite, come la Cina continentale. Il rapporto di Febbraio 2020 della International Energy Agency – l’agenzia dell’OCSE che gestisce il coordinamento intergovernativo delle politiche energetiche – statuisce a chiare lettere questo tonfo (https://www.iea.org/reports/oil-market-report-february-2020): la domanda attesa di petrolio per il primo quarter dell’anno è infatti prevista in caduta di 435mila barili al giorno.
Il New York Times riporta inoltre un preoccupante rallentamento nell’economia cinese, con conseguenze sulle produzioni ed i listini di mezzo mondo (https://www.nytimes.com/2020/02/21/business/coronavirus-global-business.html) ed il sito non-profit inglese Carbon Brief, citando dati satellitari della NASA, mostra come il normale aumento delle emissioni di biossido d’azoto osservabile dopo il capodanno cinese non si è presentato quest’anno, a riprova del fermo delle attività economiche e dei trasporti. La prestigiosa rivista Time calcola infine che questo fenomeno si tradurrà nel taglio momentaneo delle emissioni di circa 100 milioni di tonnellate di anidride carbonica.
Questa imprevista riduzione delle emissioni dovute all’epidemia di coronavirus ci offre l’opportunità di aprire una riflessione sul modo con cui è attualmente organizzato il nostro modello di lavoro a livello globale, ed in particolare sulle modalità attraverso le quali un lavoratore partecipa all’attività produttiva. L’inizio dell’era industriale ha comportato lo spostamento delle attività produttive da un modello principalmente casalingo – si prendono ad esempio le attività di filatura che prima della costruzione dei grandi opifici venivano svolte in casa – ad una modalità proto-industriale nella quale il singolo lavoratore si recava ad orari prefissati nel capannone dove svolgeva la sua attività. Come noto, questo cambiamento ha avuto impatti sociali rilevanti su scala globale, causando l’esplosione delle città, nelle quali sempre più lavoratori si recavano a portare la propria opera.
Il collasso progressivo degli agglomerati urbani e la presenza di industrie inquinanti hanno successivamente portato alla decentralizzazione di queste ultime al di fuori delle mura cittadine, mantenendo tuttavia sempre il modello produttivo che legava il singolo lavoratore al proprio luogo di lavoro. Contemporaneamente, la concentrazione in luoghi definiti delle attività produttive su larga scala ha dato origine al fenomeno del commuting, che si è svolto su distanze via via crescenti in maniera proporzionale alla diffusione dei mezzi di trasporto individuali e collettivi, fino ad arrivare alle distanze di alcune decine di chilometri che un lavoratore moderno copre normalmente per spostarsi da casa al proprio luogo di lavoro e viceversa. Questo ha progressivamente generato costi individuali e sociali crescenti, con l’aumento del disagio personale legato agli spostamenti, e contemporaneamente con la crescita delle emissioni in atmosfera causate dai mezzi di trasporto.
Ma quanto costa oggi spostare fisicamente un lavoratore da casa all’ufficio e viceversa? Ci viene in aiuto il sito Map My Emissions (https://mapmyemissions.com/home), che calcola le emissioni ed i costi sociali del commuting tra località a scelta. Ad esempio, un’automobile diesel di media cilindrata che dal lodigiano coprisse quotidianamente in andata e ritorno la sessantina di chilometri che la separano dal centro di Milano, emetterebbe circa 22 chili di anidride carbonica, con un costo sociale di 386 Euro all’anno. Un recente rapporto di Trenitalia (https://www.kyotoclub.org/docs/ad_trenitalia.pdf) calcola che muovendosi in treno le emissioni vengono ridotte di circa il 60%, ma comunque siamo di fronte a costi consistenti.
D’altra parte, le moderne tecnologie informatiche e la diffusione ormai ubiqua della connessione a Internet – l’introduzione del 5G promette ulteriori vantaggi in termini di velocità e riduzione del tempo di latenza – permettono già oggi la collaborazione tra lavoratori localizzati in siti differenti. È ormai comune l’uso di strumenti come Skype, Teams, Zoom e simili per effettuare videoconferenze, condividere documenti, persino lavorare sugli stessi in tempo reale, pur stando in luoghi e addirittura in continenti diversi. Questo ha aperto alle aziende un universo di opportunità, consentendo loro di ridurre i costi di viaggio per partecipare a riunioni nel caso in cui si posseggano più siti di lavoro; oppure di contattare e servire clienti in territori prima troppo costosi da raggiungere dalla propria sede.
Mentre l’uso delle tecnologie informatiche per ragioni di business è stato rapidamente metabolizzato dalle aziende, meno rapida è tuttora l’adozione dello smart working per i propri dipendenti. Le resistenze più comuni sono legate a timori come la “perdita di controllo” sui lavoratori, la loro presunta minor produttività, la minor identificazione degli stessi con l’azienda, ed il minor senso di comunanza sviluppato tra i membri di un determinato team.
In realtà, diversi studi dimostrano che almeno alcune di queste paure sono poco giustificate. Ad esempio, un recente studio pubblicato dalla Harvard Business Review dimostra non solo che non ci sono diminuzioni di produttività ed efficienza nei knowledge workers che lavorano da remoto; ma anzi si riscontra un aumento (https://hbr.org/2019/08/is-it-time-to-let-employees-work-from-anywhere).
Queste obiezioni vanno inoltre valutate alla luce di quelli che sono i rapporti umani del XXI secolo. Se per i nati nel Novecento le prime esperienze di dialogo con i propri coetanei in altre parti del proprio paese o del mondo sono passate attraverso gli amici di penna, i nati negli anni Duemila – che tra un paio d’anni saranno i neolaureati negli ambienti di lavoro – considerano normalissimo avere rapporti umani online. La nuova normalità è persino collaborare con persone che non si incontreranno mai fisicamente, ma con le quali si costituiscono team estemporanei o consolidati per partecipare a quest ludiche – valga su tutti il fenomeno planetario di Fortnite. Non è pensabile che questi individui non vogliano replicare al lavoro la loro modalità quotidiana di interazione sociale.
In buona sostanza, le aziende del futuro dovranno probabilmente perdere o ridurre notevolmente la propria connotazione fisica e territoriale, pena non riuscire a reclutare i talenti che sono necessari per la propria crescita, e che sempre di meno saranno disposti a viaggiare come bancali di merce. Questo avrà sicuramente riflessi positivi sulla crescita delle aziende stesse, ma anche in generale sulla società, consentendo l’evoluzione di nuovi standard di lavoro ed un non disprezzabile taglio nel costo ambientale delle nostre attività economiche.