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Mass media: cassa di rison-ansia del Coronavirus?

L’epidemia del Coronavirus in corso rappresenta un pericolo reale, ma non si è in grado di prevederne la gravità. Questo aumenta il senso di allarme e, ad un tempo, la voglia di sapere e di far sapere, cosa che oggi è resa possibile dai social media. Ci sono, tuttavia, alcune similitudini con il passato che ci spingono a portare il discorso un po’ più oltre, rispetto alla vulgata classica di contrapposizione tra catastrofisti e razionalisti. Sono ancora impresse nella nostra memoria i tanti “squilli di tromba dell’Apocalisse” circa un’imminente fine del mondo. Dagli anni ‘60, per circa un ventennio, eravamo terrorizzati per il disastro termonucleare provocato dalla contrapposizione insanabile tra USA e URSS; il passaggio del testimone sul pubblico terrore avvenne negli anni ’80, quando arrivò il virus dell’Aids e poi altri virus, come quelli di mucche pazze, pesti suine e Sars. Il terrorismo islamico e i cambiamenti climatici furono altri protagonisti del più recente pubblico spavento. In questi ricorrenti stati di allarme collettivi c’è qualcosa che sembra ritornare come un silenzioso ed invisibile “convitato di pietra”. A noi occidentali sembra occorrere come bisogno, per vivere, la morbosa attrazione della catastrofe finale.

Il benessere, al contrario di quanto si possa immaginare, accresce le angosce sul destino di morte individuale. Quando ciò accade, la disgrazia collettiva carica su di sé tali angosce, le assorbe, le rimuove e l’effetto benefico sulla propria angoscia di morte si attenua. Per cui, fino a che la tecnologia non ci renderà immortali, dovremmo imparare a convivere con queste “imminenti catastrofi fatali” come effetto collaterale di un potente antidepressivo. È quindi il desiderio di una rappresentazione catastrofica a muovere il circo mediatico? Facciamo un passo indietro. 

Alla fine degli anni ’50, Vance Packard, autore del libro “I Persuasori occulti”, denunciò come la triplice alleanza tra nuovi mass-media, scienziati e pubblicitari avrebbe creato una “fabbrica del consenso” che avrebbe tolto all’’Occidente una discreta fetta del suo libero arbitrio.

 Successivamente, egli stesso fu costretto a prendere atto che le sue previsioni catastrofiche sul potere di indirizzo collettivo dei mass-media si erano realizzate, ma in tutt’altra direzione. Ripubblicando il testo a metà degli anni 80, Packard fa una analisi tra messaggi pubblicitari da lui presi in considerazione ed il risultato sulle masse.

Packard scriveva: “Le donne iniziarono a combattere il ruolo della massaia-madre affettuosa loro assegnato. A milioni si misero in cerca di posti di lavoro, tra queste anche giova­ni mamme.  
Il fatto che donne sposate incominciassero in massa a la­vorare non fu quel disastro che gli agenti pubblicitari ave­vano previsto. Dalle indagini venne fuori che le mogli che lavorano bevono più birra, comprano più asciugacapelli elettrici, usano più rimedi antiallergici, fumano di più, viag­giano di più e sono meravigliose consumatrici di spuntini veloci, cibi preconfezionati, alimenti in scatola.
Il rinvio del matrimonio e lo straordinario dilagare di di­vorzi ha fatto sì che nascesse il gruppo dei ‘single’, un gruppo importante di consumatori di un genere nuovo. Essi hanno obbligato a lanciare confezioni di surgelati e scatolette più piccole, da una sola porzione“.   

In realtà, i pubblicitari non solo non si allarmarono, ma cominciarono ad orientarsi su un punto decisivo per la loro professione: era meglio seguire il mercato che non inventarlo e non solo perché si accorsero di poter agire, amplificandole, solo su tendenze già affermate, ma soprattutto perché questo movimento autonomo di mercato era molto più intelligentemente proficuo per loro, più della loro più incisiva campagna pubblicitaria. Il giornalismo rientrò perfettamente in queste dinamiche: l’audience condiziona il flusso di notizie; mi vien quasi da pensare, forse esagerando, che il contrario non accada quasi mai.

In sintesi, i mass-media seguono (e non creano!) continuamente delle tendenze “in progressione” che comunque sono già nate (ed i più bravi riescono ad accorgersene prima) e si prestano ad essere una ulteriore leva di diffusione dell’epidemia in questione, questa volta sociale. Bruno Vespa realizzò 13 puntate sul delitto di Cogne e non perché volesse manipolare l’informazione o fosse un untore dell’orrore morboso, ma semplicemente perché era il pubblico a richiederlo. 

Sul Coronavirus però c’è realmente una esigenza tecnica di informazione sanitaria e per le informazioni operative è necessario ascoltare gli esperti.

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