
Era davvero uscito il Codice di autoregolamentazione sulle fake news oppure il suo varo era esso stesso una notizia fasulla? Ricordo male o era stato sottoscritto da alcune delle più grandi piattaforme digitali?
Era il 2018, quando Google e Facebook, con tanto di fanfara al seguito, presentavano alla Commissione europea il Codice di condotta che aveva, quale scopo principale, quello di combattere la disinformazione sul web. L’iniziativa era assai lodevole, soprattutto da parte di quei colossi che dalla Rete traggono i loro profitti. E giù a incensarsi con titoloni sui giornali che annunciavano addirittura il taglio delle entrate pubblicitarie per gli account e i siti che diffondevano bufale. Ma si sa, davanti alla pecunia, ci si distrae facilmente. E Google ne sa qualcosa, perché i compiti a casa li ha fatti per metà.
In adempimento agli impegni assunti, ha elaborato severe norme per chi vuole promuovere il proprio sito web e monetizzarlo, tramite Google ADsense. La piattaforma non consente, o almeno così dice, contenuti illegali o che “promuovono attività illecite o violano i diritti legali di terzi”, pena la sospensione o chiusura dell’account.
Insomma, se qualche utente malevolo volesse diffamarci pubblicando contenuti e pagando Google affinchè questi siano posizionati fra i primi risultati, non avremmo bisogno di correre dalla Polizia Postale, perché la piattaforma li bloccherebbe. Del resto, anche a questo serviva il Codice di condotta.
Ma come si diceva, davanti al fatturato qualche svista ci può stare. Anche se a farne le spese sono sempre gli utenti che, ovviamente, si trovano in una condizione di debolezza.
Dalle cronache recenti, salta all’occhio il caso di un noto chirurgo ortopedico, il Prof. Stefano Zanasi, vittima di un paziente che, per farsi giustizia da sé, ha registrato un sito utilizzando come nome a dominio proprio il suo nome e ha comprato da Google il posizionamento dei contenuti in cima ai risultati di eventuali ricerche relative al suo nome e cognome. Il sito fraudolento invita a diffidare della “autorità … in cerca di miracoli” e a condividere esperienze negative con la garanzia di restare nell’anonimato.
Google, in casi come questi, si trincera dietro l’impossibilità di verificare preventivamente i contenuti, ma se glielo si fa notare con tanto di documento di identità e denuncia presentata alla Polizia Postale, mantiene lo stesso atteggiamento indifferente.
E intanto, il sito fasullo continua ad incrementare le entrate di Google e il professionista bersagliato, che in decenni di sacrifici ha costruito la sua carriera, alla velocità di un clic viene inesorabilmente screditato.
A che serve pubblicare chilometriche policy, se chi deve farle rispettare finisce per privilegiare sempre il profitto?
E’ auspicabile un intervento da parte della Commissione europea, al fine di monitorare l’effettivo rispetto da parte delle piattaforme digitali degli impegni assunti e soprattutto, impedire che le stesse possano addirittura lucrare sugli stessi contenuti che dovrebbero bloccare.