AMBIENTE ED ENERGIA

La Tesla è tua. Anzi no

L’emersione di Internet ha consentito per la prima volta alle aziende informatiche di effettuare online i processi di aggiornamento dei software installati sui nostri computer. Questo ha aspetti di indubbia comodità, dato che sarebbe inimmaginabile dover fisicamente acquisire, come si faceva una volta con i floppy disk, patch o nuove versioni dei programmi che servono a far funzionare la nostra macchina e passare del tempo ad attendere che questi si installino.

Siamo quindi tutti abituati a pensare che i nostri strumenti di lavoro, e più generalmente tutti i tool elettronici che costellano ed integrano le nostre vite, siano accuditi in maniera remota da invisibili entità benevole, le quali fanno in modo che ci venga assicurato quello che più ci interessa: il beneficio che deriviamo dall’uso di quegli strumenti.

In pochi riflettono, tuttavia, sul fatto che i tool di aggiornamento remoto devono necessariamente, per funzionare, avere accesso al nostro computer o al nostro gadget elettronico; e sicuramente quasi nessuno è consapevole del livello di accesso che le varie major dell’informatica hanno ai dati in essi contenuti. Il nostro unico momento di vaga autocoscienza, nel momento in cui adottiamo un nuovo strumento elettronico e gli affidiamo i nostri dati lavorativi, sanitari, di movimento, di relazione, è quando dobbiamo accettare le condizioni d’uso. Di solito, alla vista delle varie pagine di legalese che costituiscono queste ultime, la maggior parte di noi scrolla fino a fine pagina e clicca il fatidico “accetta”. D’altra parte, la scelta qual è? Non usare i giocattoli digitali che ci piacciono tanto?

In realtà, quando concediamo accesso ai nostri tools e ai nostri dati, stiamo facendo molto più di questo. Stiamo di fatto lasciando ai costruttori di hardware e software il controllo su parti sempre più consistenti della nostra vita, e al pezzo fondante della nostra vita permeata dalla tecnologia: l’accesso alla soddisfazione dei nostri bisogni. Se ci si riflette bene, chi possiede le chiavi per la gestione del software che fa funzionare i nostri strumenti elettronici ha il potere di interrompere questo accesso in qualunque momento, di suo proprio arbitrio, e seguendo una serie di regole che gli utenti, con la leggerezza di cui sopra, hanno accettato all’atto dell’accettazione dei termini d’uso.

Questa possibilità nelle mani di chi controlla il software non genera normalmente problemi di sorta. Esiste infatti un mutuo interesse tra costruttori ed utenti nel fare in modo che questi ultimi possano mantenere l’accesso alle loro risorse indefinitamente, soddisfacendo così i propri bisogni. Anzi, secondo le regole d’oro del marketing contemporaneo, è proprio il mantenimento della relazione di lungo periodo l’obiettivo di chiunque implementi prodotti e servizi.

Un recentissimo esempio, tuttavia, mostra come questa relazione posso non necessariamente essere stabile e scontata quando i benefici annessi all’uso di un prodotto o servizio, e l’accesso ai benefici da esso offerti, vengono trasferiti da una persona all’altra insieme all’oggetto che le concretizza.

Un cittadino statunitense ha acquistato una Tesla usata da un altro utente, che a sua volta l’aveva acquistata ad un’asta. L’automobile, oggetto del desiderio su scala globale, aveva tra i propri “optional” i software di guida autonoma Enhanced Autopilot e Full Self Driving. Poco tempo dopo l’acquisto, i due software sono stati disinstallati da remoto da parte di Tesla, dato che in seguito ad un controllo a tappeto, il nome del nuovo proprietario non corrispondeva a quello dell’utente che originariamente li aveva registrati.

A questo punto, il conflitto di diritti diventa interessante. L’acquirente ha ovviamente pagato un prezzo di un certo tipo per accedere a tutti i benefici annessi all’uso dell’auto, incluso quello derivante dai software di guida autonoma, esattamente come chi compra un’auto paga di più per avere i cerchi in lega, i fari allo xeno ed altri optional. La casa costruttrice, invece, considera i software come una propria proprietà concessa in uso all’utente che originariamente li registra, non trasferibile ad eventuali nuovi utenti della parte materiale del prodotto – l’auto in sé.

Al di là di come l’incidente verrà risolto, l’episodio apre un quadro normativo e sociologico di un certo interesse. L’assunto di base di qualunque trasferimento di proprietà su un oggetto – l’elemento di base per la soddisfazione dei bisogni nella società dei consumi – è sempre stato il carattere integrale ed irrevocabile dello stesso. Soprattutto, la trattativa è sempre stata condotta tra due soggetti giuridici il cui fine reciproco era quello di concludere uno scambio soddisfacente di controvalore: denaro per accesso a benefici attraverso un prodotto o un servizio. Una volta concluso lo scambio, sotto l’egida del famoso brocardo caveat emptor – chi compra stia attento – non c’era più alcuna possibilità che pezzi dell’oggetto di scambio potessero essere avocati da terze parti.

La prospettiva che si apre oggi, in presenza di oggetti immateriali come il software come mezzo per la soddisfazione di bisogni, è invece che in ogni trattativa di questo tipo esista sempre una terza parte silente, che svolge un ruolo sostanziale nella soddisfazione del bisogno stesso, con la quale la parte acquirente dovrà preoccuparsi di rinnovare gli accordi, pena la perdita dei benefici derivanti dall’accesso.

Come teorizzato alcuni anni fa dal futurologo Jeremy Rifkin nel libro omonimo, stiamo in ultima analisi entrando sempre di più nell’era dell’accesso, nella quale il punto critico dell’assetto socioeconomico mondiale non è più il possesso di beni e risorse fisiche, ma il potere di concedere o negare l’utilizzo di asset sempre più immateriali. Un panorama senza dubbio interessante, che darà molto lavoro a legislatori e sociologi, e che causerà non pochi mal di testa agli utenti finali.

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