
Servono i soldi. Sempre e a chiunque. E’ di palmare evidenza che le organizzazioni terroristiche, sebbene diverse nella loro natura e nei loro scopi, necessitino di continue risorse finanziarie per il loro mantenimento e per compiere i loro attacchi. Le stesse costituiscono il loro “lifeblood”, la loro linfa vitale.
Tale forma di contrasto, nell’esperienza italiana, non è nuova e (ad esempio nella lotta alle organizzazioni criminali di stampo mafioso) ha raggiunto livelli di perfezionamento considerevoli allorquando, conoscendo l’avversario, si è compreso che l’azzeramento delle capacità logistiche ed operative passava dall’azzeramento delle risorse finanziarie delle organizzazioni stesse. Con riferimento al terrorismo, però, considerando l’ambito ordinariamente internazionale in cui si muove, la stessa conoscenza dell’avversario comporta affrontare un fenomeno ordinariamente transnazionale che implica la necessità di tracciare numerosi flussi finanziari attraverso più Stati (se non più continenti) e quindi attraverso più ordinamenti.
Ma il fenomeno non è nuovo e da tempo le varie giurisdizioni hanno adottato meccanismi di controllo attraverso i quali poter monitorare la destinazione a fini illeciti delle risorse finanziarie che possono avere anche origine lecita. Si fa riferimento alla normativa finalizzata al contrasto del riciclaggio e del finanziamento del terrorismo (comunemente indicata con l’acronimo AML /CFT ossia anti-money laundering e combating financing terrorism) che nel tempo ha comportato l’adozione di standard internazionali sempre più raffinati e capaci di individuare il transito di risorse illecite attraverso gli intermediari finanziari. Sebbene il sistema possa presentare ancora delle lacune, risulta efficace nel suo complesso, consentendo di segnalare, per mezzo delle note segnalazioni per operazioni sospette, le anomalie rilevate.
Il terrorismo che ai nostri giorni maggiormente preoccupa, ossia il terrorismo islamico, non è però un fenomeno che nasce e si appoggia per il suo finanziamento esclusivamente ai canali “occidentali” di movimentazione di denaro. La millenaria cultura islamica ha infatti visto nascere e svilupparsi ulteriori sistemi di movimentazione del denaro: uno di questi è l’hawala (un IMTS ossia Informal money transfer system) che consente di trasferire somme di denaro attraverso movimentazioni non tracciabili (e quindi non lasciando piste, o meglio prove, che colleghino le persone coinvolte nel network terroristico) per mezzo di underground banking process.
Parimenti, le nuove tecnologie, possono fornire innovativi ed altrettanto insidiosi sistemi per evitare il tracciamento delle somme di denaro che le organizzazioni terroristiche hanno la necessità di spostare a favore di loro articolazioni ovvero di ricevere per il loro funzionamento. Nello specifico si fa riferimento alle criptovalute, ossia ai virtual asset. Questi ultimi, dei quali al momento è stato riscontrato un uso episodico da parte delle organizzazioni terroristiche, consentono la movimentazione pressoché immediata di fondi ed in certa misura garantiscono l’anonimato di chi effettua la transazione e l’anonimato di chi detiene la valuta, rendendosi ancora più insidiosi quando si muovono nel dark web.
Tale “caratteristica”, ancor più accentuata in alcune monete virtuali che utilizzano tecnologie per criptare le informazioni, è stata notata anche dalle organizzazioni terroristiche. Ma, sebbene l’utilizzo delle criptovalute sia molto diffuso tra la cybercriminalità, determinate caratteristiche delle stesse ne hanno impedito la loro diffusione quale forma di trasmissione di fondi specie per la loro “volatilità” e per il fatto che molti gruppi terroristici operano in aree povere di infrastrutture e, quindi non è agevole il loro utilizzo. Difficile ipotizzare il far arrivare tra gli altopiani del Magreb bitcoin che dovrebbero essere convertiti per finanziare le attività dei gruppi terroristici operanti su quel territorio, quali ad esempio le funzioni logistiche.
La riprova logica di ciò l’ha fornita il signor Rahim Bariek, un hawaladar operante negli Stati Uniti, durante una seduta della commissione del Senato degli Stati Uniti su “Banking, housing and urban affairs” dedicata agli hawala ed ai meccanismi “underground” di finanziamento al terrorismo. Nel corso dell’audizione il Bariek raccontò che, allorquando nel 1997 si era recato presso la sua filiale della Chevy Chase Bank per fare un bonifico al suocero in Pakistan, l’impiegato gli aveva risposto che la banca non poteva garantirgli l’invio del denaro a causa della diffusa corruzione presente nel sistema bancario di quel paese. Ciò nonostante, il Bariek aveva provato ad inviare un vaglia al suocero… che era stato rubato dalla posta! L’unico modo per inviare il denaro rimaneva pertanto l’hawala che risultava essere più sicuro, più veloce ed anche più economico. Il sistema infatti riusciva anche a raggiungere tutti quei posti dove il normale sistema di intermediari finanziari non aveva unità locali, garantendo sempre il buon esito delle transazioni.
Ciò, mutatis mutandis, questa volta a causa della limitata diffusione degli intermediari di criptovalute, avviene come detto nelle zone mediorentali più disagiate.
Ma il network del terrore non è limitato alle zone ove prevalentemente le organizzazioni hanno la loro struttura organizzativa. Le provviste per finanziare il terrorismo possono – ad esempio – essere raccolte anche da donatori che vogliono restare anonimi i quali, donando valuta virtuale ad una onlus che ufficialmente risulta avere scopi umanitari, forniscono fondi che vengono successivamente distratti per agevolare la commissione di singoli atti di terrorismo.
L’attenzione da parte degli organismi di intelligence e del law enforcement rimane alta soprattutto in considerazione del loro crescente diffondersi. La partita quindi è ancora aperta…