
L’acqua cheta scava i ponti: apparentemente in stato di inerme quiescenza, inoffensiva, s’appresta però ad abbattere gli argini. Argini dal nome di Privacy, confini predisposti a delimitare le nostre dimore e i nostri affari al fine di preservarne la stabilità. Se formalmente si tratta di un inossidabile e inscalfibile diritto a cui, se posto in una scala di
Mohs dei diritti, spetterebbe a mani basse il numero 10, a conti fatti si colloca al di là del bene e del male in balia degli interessi e delle potenze in gioco.
Il Dipartimento per l’Homeland Security degli Stati Uniti ha confermato, per mano di David Bernhardt, Segretario del cosiddetto DHS americano, la cessazione temporanea, “sine die”, della flotta di droni non di emergenza, il cui numero ammonterebbe a circa 800 unità, tra le sempre crescenti preoccupazioni per quel che concerne la sicurezza informatica.
In una breve dichiarazione, per conto del portavoce Carol Danko, il dipartimento “degli interni” ha reso noto i motivi celati dietro tale mossa; in sostanza l’atto sarà volto a garantire l’incolumità della sicurezza nazionale, la cui solidità potrebbe essere inficiata proprio da queste tecnologie.
E’ d’uopo però precisare, come fatto da Carol Danko, che tale provvedimento non va ad
escludere in toto quelle che sono le effettive potenzialità di tali strumentazioni, il cui spettro
d’applicazione, per la strabiliante versatilità, vanta soluzioni non indifferenti come la lotta
agli incendi, la ricerca e il salvataggio di vite umane, solo per citarne alcune; infatti tali
droni saranno ancora utilizzati per scopi di emergenza, mentre quelli non adibiti a tale
compito resteranno fermi fino all’ottenimento di una politica sicura e affidabile.
L’ordine non menziona apertamente minacce provenienti dalla Cina, ciononostante
afferma che il malloppo di informazioni, raccolte durante le missioni coi droni, risulterebbe
effettivamente prezioso e succulento per organizzazioni e governi stranieri.
In merito alla questione cinese Danko ha riferito a TechCrunch che attualmente il
dipartimento dispone di 121 droni prodotti da DJI e 665 droni costruiti in Cina ma non
realizzati da DJI, mentre 24 prodotti negli Stati Uniti contengono componenti cinesi. “La
revisione è per aiutarci a identificare e valutare eventuali potenziali minacce o rischi”, ha
detto Danko. Diversi dipartimenti governativi – inclusi i militari – hanno messo al bando i
droni “made in China”, mentre le compagnie cinesi hanno subito divieti e sanzioni per aver
operato nel governo federale in presunta connessione col governo cinese. Ciò che si teme
infatti è che le società tecnologiche cinesi potrebbero essere costrette da Pechino a spiare
o essere usate per condurre atti di spionaggio ai danni dell’Occidente. Ricordiamo infatti
come già l’anno scorso l’amministrazione Trump abbia vietato alle agenzie federali di
acquistare apparecchiature di rete da Huawei e ZTE. Diverse altre società, tra cui il
produttore di apparecchiature radio Hytera e il gigante della tecnologia di sorveglianza
Hikvision, furono anch’esse bandite dal governo.
L’andamento delle vicende appare quanto più tortuoso, per ora la DJI ha riferito che si
sarebbe operata per far assemblare i suoi droni in California, posti lontano da occhi
indiscreti, nel tentativo di porre dine a qualsivoglia illazione mossa da tribolanti
preoccupazioni. Non ci resta quindi che aspettare Godot.